La responsabilità disarma lo «scontro di civiltà»
sabato 7 novembre 2020

Con gli attentati di Nizza e di Vienna, ritorna tragicamente in scena il copione dello “scontro di civiltà”. Islamisti radicalizzati sono tornati a colpire nel cuore dell’Europa. Diversi i profili, quasi a simboleggiare due versioni dell’estremismo jihadista: un giovane nordafricano da poco sbarcato e colpito da un provvedimento di espulsione il primo; un giovane europeo con doppia cittadinanza, ma già condannato per aver tentato di raggiungere il Daesh in Siria, il secondo. Diverse anche le modalità delle stragi: un attacco all’arma bianca in una chiesa il primo, apparentemente improvvisato, preceduto e seguito da altri attentati a colpi di coltello sul suolo francese (in tutto otto negli ultimi tempi); un assalto con armi da guerra, preparazione militare, diversi obiettivi in uno spazio urbano frequentato, il secondo. Sembra quasi un manifesto dei volti molteplici della mobilitazione armata del terrorismo jihadista.

Immancabili le reazioni politiche e propagandistiche, all’insegna appunto dell’irrimediabile contrapposizione tra mondo occidente e mondo islamico, nonché della chiusura all’accoglienza dei profughi e al presunto “buonismo” in materia d’immigrazione. Bastano i crimini di alcuni, pochissimi, per etichettare come nemici centinaia di migliaia di rifugiati e diversi milioni di musulmani europei. Tra gli sbarcati in Europa in questi anni, l’attentatore di Nizza è il secondo dopo quello di Berlino arrivato via mare. Collegare sbarchi e attacchi terroristici è un’operazione emotivamente allettante, ma statisticamente infondata. Così sull’altro versante, milioni di musulmani pacifici – ormai perlopiù cittadini dei Paesi in cui vivono – rischiano di pagare il conto, in termini di pregiudizio ed emarginazione, dell’arruolamento di pochissimi correligionari nelle falangi del terrore.

Più o meno nelle stesse ore si susseguono in diversi Paesi islamici le manifestazioni anti–francesi, con migliaia di persone in piazza, foto di Macron calpestate e bruciate, minacce di boicottaggio ai prodotti francesi e di attacchi alle ambasciate. Il leader turco Erdogan ha approfittato delle tensioni riaffioranti per ergersi a paladino dell’islam dileggiato e criminalizzato in Europa, rafforzando la sua immagine nel contesto regionale e distogliendo l’attenzione dei suoi concittadini dalla crisi economica che sta attanagliando la Turchia. C’è chi soffia sul fuoco sui due fronti, e giocando con il fuoco punta a raccogliere un consenso altrimenti traballante.

Anche se in questo momento può apparire difficile, la pietà per le vittime e lo sdegno per gli attentati non vanno disgiunti dalla riaffermazione – certo costosa, e forse impopolare – di alcuni punti essenziali.

Il primo riguarda l’essenza stessa delle democrazie liberali: la loro forza – come su queste colonne ha immediatamente ribadito Andrea Lavazza – consiste nel mantenere fermi i loro valori anche quando si trovano sotto attacco. La protezione dei cittadini e la legittima aspirazione alla sicurezza debbono e possono essere combinati con la salvaguardia dei diritti umani: quindi con l’accoglienza dei rifugiati e con il rispetto di chi professa un’altra religione. Non possiamo diventare illiberali e potenzialmente disumani per sentici più sicuri.

Il secondo punto riguarda le strategie di risposta: consegnare in blocco l’islam al partito dei nemici della civiltà europea è il regalo a cui aspirano gli ideologi del terrore. Costruire alleanze con le espressioni, pur frammentate, del cosiddetto islam moderato, è l’alternativa lungimirante, riprendendo una tessitura di accordi, di regole (come la formazione dei responsabili religiosi sul territorio), di pratiche di dialogo e collaborazione. Pensiamo, per fare un esempio, al ruolo di guide spirituali preparate e responsabili in luoghi sensibili come le carceri.

Il terzo punto infine, riguarda l’etica della responsabilità comunicativa. Un tasto su cui sulle pagine di “Avvenire” si insiste da sempre. È legittimo fare satira, ed è possibile persino irridere ed “etichettare” l’islam, sebbene ormai – e meno male! – non si usi più farlo per gli afroamericani, per gli ebrei, per gli emigranti italiani… Bisogna domandarsi però quanto sia sensato e opportuno rivendicare un “diritto alla blasfemia”, conoscendo in anticipo le reazioni che potrà scatenare e immaginando le possibili conseguenze. L’esercizio di sobrietà, riflessione, moderazione nella comunicazione pubblica di ogni tipo non è autocensura, ma un contributo auspicabile, forse necessario, alla costruzione della fiducia e della comprensione reciproca.

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