Due giorni fa, in coincidenza con il sessantatreesimo compleanno di Vladimir Putin, le navi della flottiglia del Mar Caspio hanno lanciato ventisei missili Kalibr 3M-14 (più o meno equivalenti ai vecchi Cruise della Nato, ma di nuovissima concezione) che hanno raggiunto undici bersagli in territorio siriano compiendo un tragitto di novecento chilometri attraverso i cieli amici di Iran e Iraq. Una riedizione del famigerato
Axis of Evil, avrebbe detto George W. Bush, ma noi ci contentiamo di definire questa alleanza fra l’Iran degli ayatollah, l’Iraq del premier sciita Haider al-Abadi, la Siria alawita di Bashar al-Assad e il Partito di Dio degli Hezbollah libanesi non tanto un 'Asse del male' quanto una rinvigorita
mezzaluna sciita che si contrappone a quella sunnita di Qatar, Arabia Saudita e Turchia e il cui grande protettore (e manovratore) è proprio l’uomo che da settimane sta dettando l’agenda della crisi siriana attestandosi dopo decenni di latitanza russa nel teatro mediorientale come nuovo assoluto protagonista regionale e soprattutto come irrevocabile alleato di Damasco. La ricompensa a breve termine cui Putin mira è nota: rafforzare la presenza russa nel Mediterraneo, aggiudicandosi una volta per tutte la base navale di Latakia e facendone una sorta di Kaliningrad (l’enclave di Mosca nel Baltico) nei mari caldi, pronto un domani a sacrificare il suo protetto Assad in nome di una riconciliazione con la superpotenza americana. Non bastasse, nel sempre più confuso balbettio dell’Occidente e della Nato (priva com’è di credibili indicazioni strategiche da parte di un’amletica Casa Bianca) si va stagliando accanto all’ormai innegabile supremazia russa un nuovo
competitor, da anni ansioso di affermarsi anch’esso come potenza regionale e disposto a giocare con spregiudicatezza le proprie carte anche nei confronti dei suoi alleati storici. Stiamo parlando della Turchia di Recep Tayyp Erdogan, Paese chiave dell’Alleanza atlantica e insieme avversario tenace del regime di Assad. Chi in questi giorni alzasse lo sguardo agli sconfinati cieli anatolici rischierebbe di veder sfrecciare in prossimità del confine siriano i cacciabombardieri di Mosca, impegnati formalmente nella guerra contro il Daesh, di fatto però attratti molto più dalle formazioni anti-Assad finanziate dal mondo sunnita e da Washington che non dalle postazioni dell’Is. Forte delle violazioni del proprio spazio aereo e del quotidiano convoglio di missili russi destinati ai nemici di Assad, Erdogan alza la voce e le proprie pretese. Chiede una
no-fly zone al confine siriano, reclama aiuti economici miliardari all’Unione Europea per poter continuare a ospitare gli oltre due milioni di profughi siriani entro i propri confini (in mancanza dei quali lascia capire che potrebbe aprire indiscriminatamente le porte all’esodo dei migranti rovesciando in Europa una marea umana attraverso le isole greche e la frontiera ellenica di terra), invita la Nato a mantenere le batterie di missili Patriot installate in Anatolia e contemporaneamente ottiene dal segretario generale Jens Stoltenberg il pieno sostegno dell’Alleanza, arrivando a minacciare Mosca di non comprare più il suo gas e di non cooperare più nella costruzione della prima centrale nucleare di Ankara. Il ruggito del topo, dirà qualcuno, ma in realtà il premier Erdogan ha ben chiari due obiettivi: mettere la briglia ai curdi del Pkk e impedire che si formi uno Stato a guida curda a cavallo dei confini siro-iracheni (e per questo ha ripetutamente fornito armi e sostegno proprio ai jihadisti amici dell’Is se non all’Is stesso) e al tempo stesso garantirsi quella vittoria elettorale piena alle elezioni anticipate del 1° novembre, sfuggitagli per una manciata di voti nell’ultima consultazione del 7 giugno scorso. Forte di un consenso tuttora quasi plebiscitario, Erdogan necessita di un successo internazionale perché l’Akp, il partito islamico di cui è leader, riagguanti la maggioranza assoluta e gli consegni poteri definitivi e irrevocabili. Non a caso a tre settimane dal voto quattro canali televisivi turchi sono stati preventivamente oscurati. Motivo: erano ostili al presidente. Sembra quasi di essere a Mosca. Qualcosa ci dice che, alla fine, Erdogan e Putin sapranno intendersi senza troppa fatica.