L’Europa a due velocità esiste già da molto tempo. L’importante – per lo meno fino a ieri – era negarne l’evidenza mascherandone la fisionomia dietro l’elegante espressione di "Europa a geometria variabile". Oggi, alla vigilia delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario dell’Unione e dei Trattati di Roma che nel 1957 istituirono la Comunità Economica Europea e la Comunità Europea dell’Energia Atomica e all’indomani del summit a quattro di Versailles fra François Hollande, Angela Merkel, Mariano Rajoy e il premier italiano Paolo Gentiloni, la nozione sta per guadagnarsi una sorta di salvacondotto, se non ancora un vero e proprio diritto di cittadinanza.
Del resto, come dovremmo definire un club di nazioni che annovera fra i suoi membri Paesi che hanno adottato l’euro mentre altri (la Bulgaria, la Croazia, la Danimarca, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Romania, la Svezia e il Regno Unito) hanno preferito conservare la propria valuta nazionale, membri che aderiscono alla Convenzione di Schengen ed altri (Irlanda e Regno Unito) che non l’hanno applicata, mentre altri ancora vi hanno aderito (Croazia, Cipro, Romania, Bulgaria) pur non avendo tutte le carte in regola? Le stesse "cooperazioni rafforzate" – procedure decisionali che consentono a gruppi minoritari di Stati membri di integrare politiche di comune interesse senza coinvolgere gli altri partner europei – sono, a loro modo, una variante dell’Europa a due velocità.Accettarne l’ineluttabilità è un sano esercizio di realismo, ma non illudiamoci: non tutti sono d’accordo e con molte buone ragioni. Se "a due velocità" significa separare l’Europa dei forti da quella dei deboli, quella dei ricchi da quella dei poveri, quella dei Paesi più avanzati rispetto a quella dei meno dotati siamo già sulla strada sbagliata. L’Unione Europea già sovrabbonda di divisioni, di spinte centrifughe e di chimere separatiste: la Brexit britannica, l’insorgenza epidemica dei populismi vissuti come la reazione dell’anticorpo popolare nei confronti delle élite e dell’Europa à la carte, la rancorosa disputa sui migranti, i tanti muri che s’innalzano in nome degli egoismi nazionali e di un malinteso senso della purezza etnica (quanti richiami al Blut und Boden – "sangue e suolo", di cupa reminiscenza germanica – si sono uditi in questi mesi in troppe contrade d’Europa!) bastano a indicarci che la l’unica via di sopravvivenza dell’Unione Europea è quella dell’unità, non delle divisioni.
«La scelta di proseguire nella strada di una Ue a più velocità – dice bene Gentiloni – è una direzione di marcia necessaria, perché consente, laddove ci sia un’intesa tra singoli Paesi, di fare dei passi avanti e non obbliga ad evitare i passi avanti perché anche un solo Paese è contrario. Ma questa scelta la si fa nell’ambito dei Trattati, senza scegliersi i Paesi, ma consentendo a tutti di aderire a questi esempi di cooperazione più forte e strutturata e tantomeno con una logica di esclusione». I timori, è chiaro, ci sono. Sono quelli dei piccoli Paesi, del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia: essi stessi, di fatto, un roccioso quartetto di cooperanti in campo economico, scientifico e culturale), di chi teme che l’Unione che verrà dopo l’uscita del Regno Unito sia un affare fra quattro o cinque grandi nazioni a scapito di tutte le altre.
«Non si tratta – dice Hollande – di escludere chicchessia: tuttavia su sicurezza, difesa, occupazione, gioventù e cultura alcuni Paesi hanno il diritto di camminare più rapidamente». Gli stessi "grandi" – Francia, Germania e Italia più Spagna e Polonia – non sono affatto d’accordo su tutti i capitoli. La strada stessa che porta a Roma, a sessant’anni da quella firma che celebrò la vera nascita dell’Europa uscita dalla Seconda guerra mondiale, è lastricata di rinunce. Ciascuno teme di perdere quote significative di sovranità, di mettere mano al sistema bancario, di dover ridurre drasticamente il proprio debito pubblico. Ma è solo passando per quella porta stretta che si potrà disegnare l’Europa di domani, con le sue quattro grandi priorità: gestione dei flussi di migranti, difesa comune, sviluppo (e fisco) sostenibile, politiche del lavoro. Un’Europa, cioè, finalmente dei cittadini.