Dove sarà mai questa Santa Ninfa, si chiedeva il giovane religioso rosminiano inviato, nell’autunno del 1958, dal suo Ordine nell’unica parrocchia di quel grumo di case nella Valle del Belice, la più povera e depressa di tutta la Sicilia. Un altro mondo rispetto alla sua Brianza. Cambiava la vita di un consacrato, iniziava a prendere un corso nuovo anche la storia religiosa del Meridione d’Italia, di lì a poco attesa al varco di una modernità che già dalle prime avvisaglie era pronta a incrociare le armi. Silenzi, timidezze, paure, fino alle accuse di vera complicità con il potere e i potenti, erano, tutte insieme, il fardello che la Chiesa si trovava sulle spalle e che, tarato o no nel giusto, ne appesantiva in ogni caso il passo.
La biografia di Riboldi quasi si sovrappone al percorso della Chiesa meridionale da quel tempo in poi: gli anni Sessanta – precisamente proprio il Sessantotto – con il devastante terremoto del Belice che in una notte di gennaio, distrusse con Santa Ninfa, anche Salemi, Gibellina, Montevago e Salaparuta, i paesipresepi in cui convivevano case diroccate e campanili barocchi, vecchie stalle e i profili di castelli gattopardeschi. Il giovane prete brianzolo, prima del sisma, aveva già dato qualche scossa di altro tipo in parrocchia e in paese. Alla processione del Cristo morto, a Santa Ninfa, aveva detto ai giovani: di 'guidare' loro, e con parole loro, le quattordici stazioni. Poi avrebbe concluso lui, in piazza dove fece sistemare le trombe, perché le parole della Croce, e la profanazione di chiamare 'padre' un boss della mafia fossero udite da tutti ed entrassero soprattutto nella casa dei mammasantissimi del luogo che proprio da allora cominciarono a fargli intorno terra bruciata. Ma don Riboldi non diede requie, su un altro versante, neppure alle istituzioni.
Dopo sette anni e nessuna casa ricostruita, il terremoto del Belice si avviava a diventare una pratica chiusa; e allora dalla Valle del Belice, diretta al Quirinale, partì una delegazione di bambini, autori di lettere che avevano già scosso l’opinione pubblica, rimettendo in corso il problema della ricostruzione, rifinanziata nel giro di poco tempo. Dopo l’incontro con Pertini, la delegazione fu ricevuta in udienza da Paolo VI, che rivolto ai bambini promise di essere il loro 'Avvocato 'per il Belice. Era il tempo del primo dopo-Concilio e il modello di una Chiesa che scendeva in campo e si comprometteva per la sua gente, prendeva terreno in tutto il Mezzogiorno. Anche nel Sud, seppure con la patina di una modernità senza sviluppo, miglioravano le condizioni di vita. La consorteria del crimine, mafiacamorra- n’drangheta, continuava tuttavia a imperversare e insanguinare le tre più grandi regioni meridionali.
Quando fu nominato vescovo nel ’78, nell’anno del sequestro e dell’uccisione di Moro, della morte di Paolo VI (il Papa che lo aveva ordinato) del brevissimo pontificato di Giovanni Paolo I e dell’elezione di papa Wojtyla, Riboldi rappresentava la punta avanzata di un impegno a tutto campo della Chiesa contro le forme di malavita organizzata. Emblematica la scelta di Acerra, una diocesi, nel cuore dell’hinterland Napoletano-Casertano che da dodici anni era sede vacante. A 600 chilometri di distanza trovò un altro Belice, con le ciminiere dell’Alfasud e dell’Aeritalia diventate simboli precoci di un’industrializzazione fallita e i bassi di abitazioni malsane a ricordare gli stenti di una civiltà contadina a sua volta segnata da domini baronali e dalle vessazioni della camorra. Diverso il panorama, uguale l’impegno di una mobilitazione ecclesiale per far strada a forme di speranza concrete e motivate. Doveva restar chiaro nell’azione del parroco del Belice ora a guida di una diocesi, la natura ecclesiale dell’impegno: «La Chiesa – non si stancava di ripetere – non può surrogare il potere politico o l’azione dei sindacati.
Se lo facesse danneggerebbe se stessa e la sua gente». Anche con la croce pettorale non si erano spenti nei suoi confronti quei tentativi di delegittimazione che si affannavano a indicarlo, di volta in volta, come un 'prete rosso', un 'vescovo comunista' o addirittura un vero e proprio 'fuori-legge'. In terra di mafia, e poi dopo nel cuore della vecchia e nuova camorra, era il meno che potesse capitare. Ma da un fronte e dall’altro Riboldi, parroco o pastore, non ha mai smesso di essere un prete vero, autentico; radicalmente contro la violenza e gli uomini che la praticavano perché radicalmente preso dalla Croce di Cristo. Rivendicava con termini come questo la diversità da camorristi e malavitosi: «Ci facciamo ammazzare ma non ammazziamo. Ci facciamo odiare ma non odiamo. Contro il loro male non abbiamo né complicità né silenzi, né compromessi».
La radicalità delle scelte non poteva che farsi cronaca corrente nella vita di un prete e di un pastore che ha sempre scelto di «non tacere per amore del suo popolo». Nel servizio vescovile ad Acerra, don Riboldi ha poi aggiunto di suo, quella naturale cordialità brianzola che, al contatto con i momenti di condivisione della sofferenza – nelle visite in Svizzera alle baracche degli emigrati del Belice, e poi tra i senzatetto dei due terremoti, a Santa Ninfa e nell’Ottanta in Campania e Basilicata – è stata segno di una speciale saggezza pastorale. Di fronte alle sue parole, come ai suoi tanti gesti, nel Belice e in Campania – tra cui la marcia di migliaia di giovani ad Ottaviano, il paese del boss Raffaele Cutolo – anche i camorristi non hanno alzato le spalle.
Qualcuno ha cambiato strada. Tutti hanno dovuto fare i conti con un uomo di Dio che dava voce e coraggio a uomini assoggettati e vessati. Quei suoi toni alti, non si sono spenti neppure quando, per limiti di età ha dovuto lasciare la titolarità della sede vescovile. Tutta la Chiesa del Mezzogiorno, dal possente grido di Giovanni Paolo II ad Agrigento, alla forte predicazione di papa Francesco, aveva nel frattempo trasformato in coro, e sempre più possente, quella voce un tempo isolata del giovane rosminiano, prete brianzolo, diventato alfiere di una nuova Chiesa del Mezzogiorno.