«Quantunque» è la congiunzione che meglio di ogni altra sintetizza le caratteristiche della letteratura. La utilizza la protagonista di un film ormai datato (Il mistero di Wetherby, regia di David Hare,1987) in una circostanza abbastanza memorabile. Coinvolta in un’inquietante indagine poliziesca, la donna si presenta puntuale nella classe in cui insegna letteratura inglese e assegna il seguente compito: «Merita Shakespeare di essere letto, quantunque egli ci parli solo di sovrani?».
L’interrogativo, in effetti, potrebbe essere esteso a qualsiasi altro autore e a qualsiasi opera. Perché leggere Moby Dick, se non si è imbarcati su una baleniera? Perché interessarsi delle sventure di Edipo, se non si risiede a Tebe? Perché impegnarsi a decifrare Dante e le sue visioni ultramondane, se ancora non si è morti? Una buona risposta all’interrogativo sollevato dalla professoressa cinematografica (per la cronaca, l’attrice era Vanessa Redgrave, memorabile anche lei) viene ora dalla lettera con la quale, in una calda domenica di agosto, papa Francesco ha voluto sancire il valore della letteratura per la formazione. Non solo del clero o delle persone consacrate, come si legge nelle primissime righe del testo, ma di qualsiasi credente. Romanzi e poesie, avverte il Pontefice, non vanno considerati come un passatempo. Al contrario, costituiscono una particolare forma di discernimento, parola ricorrente nel magistero di Bergoglio, che anche nel documento pubblicato ieri non rinuncia a sottolineare l’importanza del riferimento ignaziano, anche attraverso le citazioni tratte dagli studi di diversi confratelli gesuiti, da Michel de Certeau ad Antonio Spadaro.
Il richiamo di Francesco va inserito in un contesto contraddistinto da una crescente urgenza di consapevolezza. Così come è rimasta celebre la distinzione fra «pensanti e non pensanti» suggerita dal cardinale Carlo Maria Martini – un altro gesuita, e non è un caso – in alternativa a quella fra «credenti e non credenti», nello scenario attuale si potrebbe azzardare un’ulteriore declinazione, che corrisponde alla capacità o incapacità di pensare in termini spirituali: di nutrire una vita interiore, dunque, quale premessa irrinunciabile a quell’inquietudine che lo stesso Martini considerava inscindibile dalla sequela del Vangelo. Esattamente questo è il «quantunque» della letteratura, questa disponibilità a penetrare tanto profondamente in sé stessi da scoprirsi disponibili all’incontro con l’altro – e, sì, anche con l’Altro.
La letteratura predispone alla comprensione dell’umano in ogni sua sfumatura, e lo fa educando all’attenzione (è uno dei passaggi cruciali della lettera del Papa, che non demonizza gli audiovisivi né i media digitali, ma nel contempo rivendica l’insostituibile peculiarità della «lettura profonda» studiata e teorizzata dalla neuroscienziata statunitense Maryanne Wolf). In questo, e non soltanto in questo, corre un’analogia profonda tra l’esperienza della letteratura e la vita di preghiera, un’analogia ribadita dal fatto che la Bibbia è, in sé, una formidabile collezione di generi letterari, che vanno dall’abbandono lirico del Salterio all’implacabile argomentazione del Qoèlet, dallo scrupolo cronachistico dei libri storici alla meravigliosa libertà di invenzione delle parabole con le quali Gesù di Nazareth si rivolge alla mente, al cuore e alle anime di chi voglia ascoltarlo.
Jesus was a sailor, cantava Leonard Cohen: era un marinaio, per questo sapeva come salvarci dal naufragio. Ma era anche e specialmente un narratore, per questo non possiamo accontentarci del «Cristo senza carne» che Francesco stigmatizza nella sua lettera. Abbiamo bisogno di storie che diano corpo alla realtà, abbiamo bisogno di parole che rendano concreta la storia. Quantunque possa risultare strano, è di letteratura che abbiamo bisogno.