Quando il 12 marzo 1977 Manuel Solórzano e Nelson Rutilio Lemus – entrambi laici e contadini – vennero uccisi a colpi di fucile mentre viaggiavano in auto con il gesuita Rutilio Grande sulle strade del Salvador, nessuno avrebbe immaginato che di lì a qualche decennio i due - che all’epoca avevano rispettivamente 72 e 15 anni - sarebbero entrati nella storia della Chiesa. Come ha detto il cardinale Rosa Chavez il 22 gennaio scorso, giorno della loro beatificazione, i due laici martiri rappresentano «l’immensa moltitudine che nessuno poteva contare».
Quella «degli innumerevoli martiri anonimi che sono parte dei 75mila morti di una lotta fratricida che ha dissanguato il Paese per dodici anni» (qualcosa del genere si potrebbe dire pure del Guatemala, insanguinato da lunghi anni di violenza, che hanno falciato le vite di migliaia di persone e, fra loro, di molti catechisti cattolici), ma anche, aggiungiamo noi, quella dei tantissimi collaboratori laici, preziosi 'gregari della missione' che dovremmo imparare a onorare come campioni nascosti dell’evangelizzazione.
La storia della Chiesa, infatti, è costellata di figure di laiche e laici, catechisti e non solo, stretti collaboratori di missionari e pastori: figure tanto cruciali nel processo di inculturazione della Buona Notizia quanto, troppo spesso, dimenticate o neglette. Pochi giorni fa, in Laos, è stato tributato a una di queste un meritato riconoscimento: l’11 gennaio, come già ricordato su 'Avvenire', è stata infatti inaugurata una nuova chiesa dedicata al primo martire di etnia hmong: il beato Paul Thoj Xyooj. Il catechista, di soli 19 anni, venne ucciso nel 1960, mentre accompagnava padre Mario Borzaga, giovane missionario trentino degli Oblati di Maria Immacolata, durante la visita a un villaggio. Entrambi sono stati beatificati a Vientiane l’11 dicembre 2016, insieme con altri 15 martiri. Non molto diversa la vicenda di cui è stato protagonista il catechista Isidoro Ngei Ko Lat, primo birmano a essere beatificato, il 24 maggio 2014, a 64 anni esatti dal giorno della sua uccisione. Isidoro era uno stretto collaboratore di padre Mario Vergara, missionario del Pime di origini campane.
Non sappiamo molto di lui, ma i pochi cenni nelle lettere di Vergara ci lasciano intuire quanto prezioso fosse il servizio di questo laico, proveniente da una famiglia di contadini convertita alla fede cattolica dal beato padre Paolo Manna. Per un periodo aveva coltivato il desiderio di diventare sacerdote ed era entrato nel seminario minore di Toungoo; poi le difficoltà familiari e di salute avevano troncato il sogno e, tuttavia, questo non gli aveva impedito di spendersi in maniera decisa e generosa nell’annuncio del Vangelo.
Ebbene. I volti e la testimonianza di tanti 'gregari della fede' rappresentano un’evidenza: la missione, in quanto opera dello Spirito, è un evento corale, non (come troppo spesso è stata presentata) l’opera di capitani tanto coraggiosi quanto solitari. Il missionario straniero è sì la voce della novità del Vangelo che irrompe in una cultura, come un dono sorprendente e misterioso. E tuttavia, coloro ai quali è affidato il compito, non meno affascinante e impegnativo, di incarnare quella Novità imprevedibile nella cultura di un popolo sono proprio le donne e gli uomini che quella cultura vivono e respirano.
La storia della fede in Cina non sarebbe la stessa se l’opera e il messaggio di padre Matteo Ricci non fossero diventati un’eredità viva grazie a diversi amici e collaboratori cinesi, primo fra tutti quel Paolo Xu Guangqi, importante funzionario imperiale e coltissimo intellettuale di cui Li Madou (il nome cinese assegnato a Ricci) fa spesso menzione nei suoi scritti, con parole di elogio e gratitudine. È tempo, dunque, di raccontare la missione con uno sguardo nuovo, davvero plurale. Uno sguardo capace di abbracciare sempre più tutte e tutti coloro che, sulle vie del mondo danno testimonianza al Vangelo. Foss’anche vivendo una vita da mediano.