La gara lanciata da Amazon oltre un anno fa per la città che avrebbe ospitato il suo secondo quartier generale, dopo quello storico di Seattle, è stata vinta non da una ma da due metropoli: New York e Washington, che si sono così aggiudicate la promessa di veder nascere sul loro territorio un nuovo polo industriale da 25.000 posti di lavoro (ciascuna). La scelta di due centri urbani che già concentrano manodopera qualificata, infrastrutture, istituzioni di ricerca eccellenti ed innovazione ha creato non poche polemiche negli Stati Uniti: dopotutto nessuno dei due vincitori ha veramente bisogno della trasformazione economica prospettata dal gigante delle vendite online.
Ma nemmeno queste due invidiabili metropoli hanno ottenuto a basso prezzo l’onore di fare da casa a una nuova sede di Amazon. New York pagherà all’azienda di Jeff Bezos più di due miliardi di dollari in crediti d’imposta, sconti e altri incentivi. Una cifra che non include centinaia di milioni in spese previste per infrastrutture e la formazione dei lavoratori.
Nella corsa a corteggiare l’azienda, altri Stati avevano offerto anche di più. Maryland e New Jersey avevano presentato a Bezos pacchetti multimiliardari che fanno impallidire quelli di New York e della Virginia (il secondo quartier generale scelto è infatti tecnicamente ad Arlington, dall’altra parte del fiume Potomac rispetto alla capitale Usa, quindi in Virginia).
La Pennsylvania aveva proposto addirittura una sovvenzione di 4,5 miliardi totali nel corso di 25 anni. Dopo 14 mesi passati a ricevere buste con offerte miliardarie, a discutere con governatori e rappresentanti statali, la compagnia ha dunque scelto due delle aree più ricche d’America, lasciando a mani vuote centri che avrebbero tratto maggiore vantaggio dalla sua presenza e seminando il legittimo dubbio che la competizione lanciata dal colosso di Internet sia stata inutile: un enorme spreco di energie che crea benefici solo per l’azienda. Amazon infatti ora dispone, senza aver fatto alcuno sforzo, di una lista di pretendenti che le hanno rivelato i loro piani segreti per la crescita delle infrastrutture, lo sviluppo economico e gli incentivi fiscali e che può sfruttare per pianificare investimenti futuri.
Economisti e sindacalisti americani, però, sono andati oltre l’interrogarsi sulla futilità del gioco, e hanno paragonato la corsa disperata di città e Stati per accaparrarsi investimenti privati sul loro territorio a un inganno, se non a vera e propria corruzione. Non è la prima volta, da quando la pratica di attirare le aziende con incentivi pubblici si è diffusa negli Stati Uniti, negli anni Ottanta, che circola l’idea che queste offerte tolgono denaro all’istruzione e alle opere pubbliche, misure più efficaci di una nuova fabbrica nel sollevare le economie locali e migliorare il tenore di vita. La ricerca ha dimostrato infatti che gli incentivi pubblici giocano un ruolo minimo nelle decisioni aziendali, il che significa che spesso i governi finiscono col pagare le imprese per fare ciò che avrebbero fatto comunque.
Come Amazon dimostra. Negli ultimi anni il costo di essere prescelta da un’azienda è diventato tanto alto da generare calcoli ancora più precisi. Quanto viene a costare a un’amministrazione locale ogni posto di lavoro? E che cosa potrebbe fare con quei soldi? Uno studio del 2008 stimava che gli Stati spendevano 70 miliardi di dollari all’anno in sgravi fiscali, elettricità gratuita o altre sovvenzioni per attirare investimenti privati - e questo prima che la Grande Recessione spingesse governatori e sindaci ad addolcire le offerte.
Oggi sono 90 miliardi. E se nel 2007 i 'mega affari', nei quali un’amministrazione locale sborsa almeno 50 milioni di dollari, erano meno di una dozzina all’anno, nel 2009 erano raddoppiati, poiché il premio in termini di eleggibilità per i politici che 'creano posti di lavoro' è diventato ancora più alto. Da allora circa metà degli Stati Usa ha introdotto speciali agevolazioni fiscali per i data center, gli stabilimenti che ospitano i server che contengono i dati informatici.
Gli 11 pacchetti di incentivi concessi ai centri di dati di alcune delle più importanti aziende Internet (Microsoft, Google, Apple, Facebook, Amazon Web Services) sono costati quasi 2 milioni di dollari per ogni posto di lavoro che hanno creato. Un altro caso limite è stato quello di Foxconn, l’azienda di elettronica taiwanese famosa per la produzione dell’iPhone in Cina, che quest’estate ha iniziato a costruire nel Wisconsin una fabbrica di schermi piatti da 3mila posti dopo la promessa di un sussidio di 4,5 miliardi di dollari. Lo Stato pagherà dunque 1,5 milioni per impiego. Il commento degli accademici è spietato: 'La teoria e l’esperienza provano che gli Stati stanno buttando via i loro soldi', dice Michael Farren, ricercatore di politiche pubbliche presso la George Mason University. Farren fa anche notare che i vantaggi di tali operazioni, in un’economia a bassa disoccupazione, è sempre più discutibile.
Si pensi all’arrivo di Tesla nel 2016 appena fuori Reno, che il Nevada ha offerto al produttore di auto elettriche 1,3 miliardi di dollari affinché costruisse una fabbrica di batterie al litio. L’area che circonda l’impianto ha in effetti conosciuto un modesto boom economico. Ma basta allontanarsi di una cinquantina di chilometri per scoprire che i crediti d’imposta concessi a Tesla si sono tradotti in tagli ai servizi pubblici, risultando in strade piene di buche, scuole sovraffollate e alloggi sovvenzionati insufficienti, proprio mentre l’afflusso di lavoratori qualificati faceva impennare gli affitti. Gli economisti hanno ripetutamente concluso che il gioco degli incentivi è a somma zero: i posti di lavoro creati in uno Stato sono persi in un altro. È anche difficile stabilire se un investimento fatto per attirare una società sia produttivo. Sebbene l’annuncio di tali accordi sia circondato da molta fanfara, raramente si presta attenzione alla valutazione delle loro promesse a posteriori. La soluzione? Sarebbe che Stati e municipalità non si prestassero più al braccio di ferro degli sgravi e dei sussidi. Come arrivarci non è ovvio.
Alcuni economisti hanno proposto una legge federale, l’equivalente a livello nazionale del Foreign Corrupt Practices Act, che vieta la corruzione di funzionari stranieri per ottenere affari. Altri consigliano di cominciare con misure statali che rendano i politici locali responsabili del prezzo che fanno pagare alla loro comunità in cambio di benefici economici che spesso non si materializzano. Greg LeRoy di Good Jobs First, organizzazione che assiste le amministrazioni locali nelle loro decisioni economiche, suggerisce che il governo federale trattenga il 10% di alcuni finanziamenti agli Stati che sottraggono lavori ad altri. Ma le grandi aziende americane, per il momento, non sono preoccupate. Nella clima di divisione politica e nell’atmosfera pro-business rilanciata dall’Amministrazione Trump è altamente improbabile che il Congresso proibisca questo tipo di bustarelle. Gli americani allora continueranno a sentirsi dire, come è successo recentemente agli abitanti del Wisconsin, che lo stesso Stato che sta sborsando alla Foxconn oltre 4 miliardi di dollari non ha i soldi per aumentare gli stipendi degli insegnanti - già fra i meno pagati del Paese.