Don Milani in una foto d'archivio
Caro direttore,
«Balducci, Turoldo, Milani. Preti di “frontiera”», la rivista “Testimonianze” associa queste figure diversissime, unite da una fede vera e dalla difesa del Concilio Vaticano II quando occorreva coraggio per farlo e, insieme, dalla fermissima convinzione che mai avrebbero abbandonato la Chiesa, a costo di ogni forma di emarginazione.
Di don Milani si è parlato molto in questi mesi, in occasione dell’anniversario. Si sono scritte biografie, lo si è additato come modello educativo, con il rischio di una lettura sociologica-pedagogica, che è quanto di più riduttivo e deformante si possa pensare di questa figura davvero straordinaria. Se devo ricordare il contributo più ricco di don Milani, allora come oggi, lo vedo tutto in quella lettera a Pipetta ignorata dai più nel revival, pur generoso della sua figura. A Pipetta, un compagno comunista don Lorenzo scrive che quando dopo avere lottato insieme per la giustizia sociale fossero giunti davanti al cancello della grande villa del padrone e, insieme, l’avessero abbattuto, ecco in quel momento lui l’avrebbe salutato e sarebbe tornato dal suo Signore. Non solo perché la giustizia sociale non esaurisce certo la ragione dell’impegno cristiano nel mondo, ma perché soprattutto non può accontentarsi mai di nessun “ idolo”.
Questo spessore formò in profondità le nostre coscienze giovanili nella scelta per gli ultimi. “Esperienze pastorali”, “L’obbedienza non è più una virtù” e la mitica “Lettera ad una professoressa”, superarono fin da subito i confini del cattolicesimo fiorentino, laboratorio di dialogo, per diventare riferimenti imprescindibili di noi giovani appassionati del Concilio che venivamo formando circoli e gruppi spontanei in ogni regione d’Italia. Tra i tanti insegnamenti ne ricordo uno che resta ancora vivo oggi. L’elogio della disobbedienza proponeva l’obiezione di coscienza in una cultura dalle tinte fortemente autoritarie: resta oggi questo appello come principio a non conformarsi ai più accattivanti richiami di un “pensiero corretto” che in nome della libertà non rispetta più i limiti.
Padre Turoldo, è, invece la figura forse meno legata a quella stagione: mistico, poeta permeabile alle emozioni. Molto bello il ricordo di Fioretta Mazzei al suo “Non abbiamo più vino”, che dipinge la giocosità di questo corpo grande, presente, un gigante buono, impulsivo. Una sensibilità vicina al sentire femminile così poco valorizzata in quegli anni. E di lui che cosa è vivo? La dimensione interiore, il bisogno di tornare a un più profondo rapporto con se stessi, sentita come una necessità di tutti, ormai storditi da un mondo esterno fagocitante e impoverente: il bisogno di spiritualità non come “privilegio” di un anima mistica e contemplativa, ma come la postura essenziale per tutti.
Infine, vengo a padre Balducci che ho conosciuto bene, che mi volle nella redazione della rivista “Testimonianze”: «prima donna!» , si meravigliavano, congratulandosi, i redattori maschi. Vigeva una cultura molto diffidente verso le donne, alla quale neppure Balducci sfuggiva, ma con la quale si misurava senza retorica, con autenticità e che un po’ alla volta si piegava, con sempre più coraggio. Convegni sul tema degli anticoncezionali, dell’aborto e del divorzio, della donna nella Chiesa, si susseguivano tra tormenti e riflessioni. Erano gli anni Settanta e nella sede di via Gino Capponi si riunivano i “cattolici comunisti”, La Valle, Gozzini, Meucci, e discutevamo di laicità e politica, di fedeltà alla Chiesa: stare nel modo senza essere del mondo, si misurava con i tormenti e le titubanze del “nostro” papa Paolo VI. E del fluido oratore del monte Amiata che cosa è vivo? Le sue ultime riflessioni sull’uomo planetario, anticipavano l’avvento di quella globalizzazione che portava grandi opportunità e pesanti solitudini. E con quel rovello, girava per l’Italia a presentare il suo libro. Solo, alla guida della sua utilitaria, morì in un incidente stradale vicino a Cesena. Era un’estate calda in Romagna e io ero immersa nel frastuono della riviera quando mi raggiunse la notizia. Mi precipitai all’ospedale di Cesena. Era solo, coperto da un telo bianco che lasciava scoperto quel viso forte. Lo vegliai fino a quando non vennero i suoi “fiorentini”.
*Senatrice del Pd e storica