La falsa profezia
mercoledì 21 dicembre 2016

Mancano le informazioni e forse quelle che ci sono non vengono analizzate nel modo più accurato, ma il motivo che rende così difficile comprendere che cos’è veramente successo a Berlino l’altra sera è un altro. Non riguarda le falle dell’intelligence né le eventuali negligenze degli investigatori. Riguarda, semmai, il fatto che da almeno due anni a questa parte – dalla strage nella redazione parigina di "Charlie Hebdo", il 7 gennaio 2015 – l’Europa si trova a fronteggiare un nemico invisibile. Meglio, una realtà sfuggente, che assume i connotati del nemico proprio in virtù della propria invisibilità.Se gli attentanti dell’11 settembre 2001 erano ancora il risultato di una struttura verticistica, a suo modo innovativa rispetto al passato ma ancora innestata in una concezione otto-novecentesca del nichilismo terrorista (fra I demoni di Dostoevskij e L’agente segreto di Conrad, per intenderci), l’avanzata del Daesh si è sviluppata lungo una direttrice in gran parte diversa, che si sarebbe tentati di definire “culturale”, non ci fosse il rischio di lusingare eccessivamente la retorica dei tagliagola.

Ma è fuor di dubbio che la macchina propagandistica del sedicente Stato islamico abbia puntato, fin dall’inizio, alla diffusione di una mentalità ben riconoscibile, tanto raffinata nell’involucro mediatico quanto semplificata nei contenuti, riducibili alla rozza contrapposizione noi contro loro così ingenuamente apprezzata dai populismi dell’Occidente avanzato. Il reclutamento sul campo continua, con i disastrosi risultati di cui rendono conto le cronache da Aleppo. Contemporaneamente, però, si sviluppa una modalità di affiliazione più incontrollabile e sottile, la stessa alla quale allude il politologo Oliver Roy nella sua analisi sull’islamizzazione del radicalismo. Quale che sia l’origine dello scontento, basta trovare rifugio sotto le bandiere nere del Daesh per illudersi di ottenere una qualche legittimazione. Per ottenere, quel che è peggio, l’attenzione di un’opinione pubblica che davanti a quelle stesse bandiere non riesce a reagire se non con gli strumenti della rivalsa e del panico morale. Non sappiamo ancora che cosa sia esattamente accaduto a Berlino, né ci appare chiara la dinamica dell’uccisione dell’ambasciatore russo ad Ankara, ma entrambe le parate di morte finiscono per inserirsi nella stessa danza macabra che da Parigi si è snodata a Bruxelles, a Nizza, a Rouen, a Istanbul, in diverse località della Germania. Non serve più neppure la rivendicazione, ormai. È il nemico invisibile che ogni volta torna a colpire, e proprio da questo lo si riconosce: dal fatto che non lo si può guardare in faccia.

C’è una strategia in tutto questo? L’impressione è che sì, una strategia ci sia, ma si manifesti in modo pressoché spontaneo. Una mossa si aggiunge all’altra senza che sia stato impartito alcun ordine, le motivazioni personali – non di rado meschine – si mescolano ai deliri geopolitici, rispetto ai quali il richiamo perverso alle tradizioni religiose riveste il ruolo di una profezia auto-avverante. Si evoca il disastro nello stesso momento in cui lo si provoca, vantandosi intanto della previsione. In ogni caso, se proprio si volesse tentare di decifrare le tracce di un disegno, non si potrebbe fare a meno di notare come l’insistenza con cui dall’estate in poi è stata bersagliata la Germania vada a colpire, in sostanza, il progetto di integrazione ben regolata coraggiosamente sostenuto dalla cancelliera Angela Merkel. Da sempre il noi con loro è l’avversario più temibile del noi contro loro, la smentita più clamorosa di ogni falsa profezia. Che tutto questo accada alla vigilia del Natale, la festa cristiana che celebra nell’Incarnazione la caduta della barriera fra umano e divino, potrebbe anche non essere soltanto una coincidenza.

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