Il clamore politicomediatico che, in questi ultimi tempi, ha di nuovo accompagnato alcuni gravi casi di aggressioni a scopo di furto e di rapina e la reazione violenta di privati cittadini per la difesa di sé, dei propri familiari e delle proprie cose, fino alla soppressione di vite umane, hanno fortemente turbato le coscienze e scosso l’opinione pubblica.
Così da innescare reazioni ad ampio raggio sul piano sociale. Reazioni rabbiose, al punto da rivendicare la legalizzazione della difesa armata contro chiunque vìoli gli spazi vitali della casa e del lavoro. «Se lo Stato non mi protegge allora faccio da me», il ritornello che rivendica un 'poter fare', con impunità sancita dalla legge. Legge chiamata, perciò, solo ad allargare le maglie della legittima difesa. Sono molti, infatti, gli appelli al legislatore a legiferare in questa direzione. Provocati dall’onda lunga della reazione emotiva, ma che proprio per questo rischiano lo sbilanciamento della legalità in senso permissivo. Permissività della 'difesa a ogni costo', da ogni intrusione reale o percepita nel raggio dei propri spazi.
Un modo di farsi giustizia da sé. Per questo il direttore di questo giornale ha parlato e scritto più volte, e con crescente preoccupazione, di una irriflessiva ed esplosiva spinta alla «privatizzazione della pena di morte». Questa tendenza e questo clima polemico dicono, e incrementano, la sfiducia nello Stato come garante del bene comune e favoriscono il ricorso alla dotazione e all’uso delle armi. Con gravi ripercussioni sulla convivenza civile: s’indeboliscono lo stato di diritto e il primato dell’etica nella regolazione dei rapporti sociali. Compresi i rapporti di difesa contro eventuali aggressori.
Questi rapporti sono eticamente regolati dal 'principio di legittima difesa', insegnato dalla Chiesa ma appartenente alla sapienza etica dell’umanità. Perché risponde a una logica di ragione e non di fede. Come tale è conoscibile da tutti e valevole per tutti. Esso riconosce la difesa dall’aggressore come un diritto dell’aggredito: espressione del diritto alla vita. E, se l’aggredito è il mio prossimo, il diritto è per me anche un dovere. Un dovere nei limiti delle mie possibilità e in ragione della piccolezza, della debolezza e dell’impotenza altrui, come nel caso di un bambino, di una donna, di persone inermi. Al punto che rinunciare alla difesa, assistere passivamente all’aggressione dell’innocente e del giusto, rende complici nel delitto. È complicità omissiva. Non si pecca solo per azione, ma anche per omissione. Mai però può darsi una difesa fai-da-te. Il principio infatti formula le condizioni di legittimità nell’uso della forza. Esse sono essenzialmente tre. La prima esige che il ricorso alla violenza difensiva costituisca un estremo rimedio.
Questo significa che si devono esperire prima tutte le possibilità e i mezzi non violenti e meno violenti di dissuasione e di difesa, e solo come ultimo e inevitabile rimedio ricorrere alla forza. In secondo luogo la violenza aggressiva dev’essere reale, effettiva, e non ipotetica, presunta. Questo significa che non è lecita una violenza preventiva. La terza condizione dice che la violenza difensiva deve essere proporzionata. Ciò significa che non può essere superiore alla violenza aggressiva e causare più danni di questa. Sensibilizzare le coscienze e ispirare le leggi a questo principio è espressione e indice di umanità, che riconosce e tutela la dignità di ogni persona; e di civiltà, che impronta a diritti e doveri le relazioni sociali. Come tale va assunto a principio-guida di ogni disegno legislativo.
*professore di Teologia morale Pontificia Università Lateranense