Il regime di Recep Tayyip Erdogan sta sperimentando una seria difficoltà: l’economia turca, infatti, ha cominciato a inviare in maniera evidente segnali critici di rallentamento. Nel 2016, il Pil e il Pil pro-capite (in valori costanti) avevano registrato i tassi di crescita più bassi dal 2010, rispettivamente il 3,2% e l’1,6%. Un segnale analogo, inoltre, arriva dal tasso di crescita della produttività del lavoro che tra il 2017 e il 2016 è stato il più basso (1%) dal 2010 e comunque al di sotto di un tasso medio storico del 2,2% registrato nel periodo 2000-2017. E infatti, a dispetto dei tassi di crescita positivi nel 2017, il tasso di disoccupazione è salito all’11,4% tornando quasi ai livelli del 2009. Il tasso di inflazione medio nel 2017 secondo il fondo monetario internazionale è stato dell’11% e quindi ben al di sopra del valore registrato nel 2016 (7,8%). Le esportazioni nel 2016 hanno cominciato a diminuire (-2%) dopo anni di crescita e, peraltro, tra queste nel 2016 la percentuale di manufatti ad alta tecnologia era non solo modesta (2%) ma anche più che dimezzata rispetto al 2000. In generale, il peso del settore manifatturiero rispetto al Pil è pari al 18,8%, e quindi inferiore al dato registrato nel 2000 (21%).
In breve, da questi dati si intuisce che le prospettive di lungo periodo dell’economia turca non suscitino più l’ottimismo d’un tempo. Erdogan e il suo governo devono aver cominciato a comprendere la portata del rallentamento in atto e a preoccuparsene. Periodi di debolezza (o, peggio, recessione) economica, infatti, sottopongono i regimi a una severa pressione da parte della popolazione o almeno da quella parte di essa che vede non realizzate le proprie aspettative.
La consapevolezza della debolezza dell’economia è quindi probabilmente alla base della scelta del governo di portare avanti le prove muscolari delle ultime settimane, vale a dire l’attacco ai curdi di Afrin e il blocco della nave perforatrice italiana Saipem 12000, diretta verso Cipro per trivellare un giacimento concesso all’Eni in licenza da Nicosia, ma rivendicato dalla Turchia. Per non parlare della stretta sulla stampa: è di venerdì la condanna all’ergastolo di 6 giornalisti, tra cui i fratelli Altan. Si rafforza, insomma, il sospetto che Erdogan, voglia giocare d’anticipo e consolidare il proprio sostegno interno con l’apertura di sempre nuovi fronti. Una strategia tipica dei regimi autoritari che temono il declino. Nella storia uno degli esempi più famosi è sicuramente quello della Guerra delle isole Falkland/Malvinas nel 1982 tra Argentina e Regno Unito. La giunta militare argentina del generale Leopoldo Galtieri pensò di sopravvivere al dissesto economico rinfocolando un sentimento nazionalista attraverso l’invasione dell’arcipelago conteso. Ma incassò una dura sconfitta militare, che segnò la fine della dittatura. Nel caso turco, sia l’azione militare contro i curdi sia il blocco contro una nave italiana sono evidenti segnali di debolezza e non di forza. Non a caso, il leader di Ankara ha agito in situazioni in cui sa di non avere una vera opposizione.
Il blocco della nave italiana nelle classificazioni utilizzate dagli specialisti rientra nella categoria di atti caratterizzati dall’uso della forza, ed è quindi da considerare un atto di elevata gravità. Esso però non condurrà verosimilmente a una rappresaglia militare da parte del governo italiano, soprattutto in assenza di una posizione comune dell’Unione Europea. L’attacco ai curdi di Afrin, d’altro canto, è stato condotto nella consapevolezza che gli Stati Uniti non sarebbero intervenuti per sostenere le milizie curde che pur avevano partecipato alla lotta contro il Daesh. In realtà, Erdogan ha fatto la voce grossa in situazioni che razionalmente potremmo definire prevedibili.
È però altrettanto prevedibile che la strategia aggressiva del presidente turco può divenire molto pericolosa in un futuro, poiché essa tende necessariamente ad autoalimentarsi. In altre parole, Erdogan ha bisogno di trovare sempre nuovi obiettivi polemici per mantenere questa forma di consenso basato sulla forza, sull’identità e il sentimento nazionali. Per quanto possa apparire un paradosso, è probabile che per tale via il leader turco finisca con l’indebolire sempre di più la sua stessa posizione. Se da un lato le occasioni per prove di forza facilmente gestibili sono quasi – se non del tutto – esaurite, dall’altro nel momento in cui Erdogan persistesse nello sfidare Paesi alleati della Nato non solo si porrebbe al di fuori dell’Alleanza, ma soprattutto diverrebbe un interlocutore poco o per nulla credibile in seno alla comunità internazionale. Nei prossimi mesi, nel momento in cui i dati economici continuassero a peggiorare, è probabile che il governo turco verrà sottoposto a una pressione significativa a livello interno. L’auspicio è che Erdogan non costringa i turchi a entrare in ulteriori percorsi di guerra infiammando ulteriormente il già critico scenario mediorientale.