I «furbetti»? A lezione sotto i crolli
venerdì 28 ottobre 2016

Il caso fu eclatante: la notte di Capodanno del 2015, i vigili urbani di Roma furono colpiti da un’improvvisa e misteriosa epidemia da Veglione. Malgrado la data particolarmente “calda” dal punto di vista del traffico e della sicurezza da garantire, dal lavoro si assentarono contemporaneamente in 767, cioè l’83% degli uomini e delle donne in divisa previsti in servizio. Scoppiò un piccolo scandalo, si parlò addirittura di «licenziamenti inevitabili». Nessuno si illuse che si arrivasse a tanto: la rassegnazione al menefreghismo, si sa, anche alle nostre latitudini sta diventando malattia del secolo. Per di più l’inchiesta dimostrò che i “furbetti di paletta e fischietto” avevano alibi di granito: su 767 assenti, 571 erano effettivamente in malattia. E smentire un certificato medico è più difficile che sostenere che l’Inter di quest’anno vincerà il campionato. Altri 81 vigili erano esonerati dal lavoro grazie alle legge 104 (assistenza ai familiari disabili), e 63 erano a donare il sangue: scelta tattica comunque perché la notte di Capodanno, probabilmente nemmeno Dracula si sarebbe messo in coda per riceverlo (o metterlo in freezer). I restanti 52 non erano in servizio per altri motivi, tra cui i congedi parentali. Alla fine nessuno perse il posto, ma arrivò una multa di 100mila euro complessivi. A carico non dei vigili però, ma dei loro sindacati di categoria. Colpevoli – secondo il Garante – «di una forma anomala di protesta elusiva della disciplina dello sciopero». L’altro ieri il Tribunale di Roma ha assolto anche le ultime due sigle imputate, annullando pure questa sanzione. Restano indagati, e in attesa di processo per truffa, solo 7 agenti della Polizia Municipale capitolina. Ma nel 97% dei casi, nessuno avrebbe fatto nulla di illegale. Riprovevole indubbiamente sì, ma lecito. Circostanza che induce a sospettare che l’Italia sia un Paese irrecuperabile.


Quello dei vigili urbani della capitale però è solo uno dei tanti casi di dipendenti pubblici sospettati di assenteismo: i “furbetti del cartellino”, da Sanremo a Sulmona, hanno ormai disegnato la geografia globale di un malcostume endemico che nessuna nuova e più severa legge riesce a eliminare. Nemmeno la minaccia estrema di perdere il bene oggi più prezioso, il lavoro, serve a frenare la tentazione a imbrogliare la collettività. E a regalare una speranza a chi il lavoro non ce l’ha, e invece potrebbe ereditarlo dai disonesti che, irridendolo e tradendolo, non meritano di conservarlo. Ma la ragione prima di questo cancro diffuso purtroppo, è drammaticamente profonda: quasi sempre l’assenteista non si sente un disonesto che imbroglia, ma una vittima che si arrangia. Un meschino sottopagato o un talento incompreso, in ogni caso una persona in credito con la propria esistenza, che nella piccola truffa allo Stato vede una sorta di parziale compensazione.


Per costoro – colpevoli e innocenti che siano – sarebbe auspicabile una pena accessoria: andare a lezione dai vigili del fuoco, e da tutti gli altri dipendenti pubblici che in queste ore lavorano tra le macerie del terremoto senza timbrare il cartellino, senza fermarsi per un raffreddore, senza guardare l’orologio o il calendario. Sotto i crolli e i calcinacci, di certo potrebbero indicare ai loro colleghi meno virtuosi dove sta l’etica del dovere e persino del sacrificio e il senso del lavoro. Sempre – beninteso – che costoro non si mettano in malattia anche quel giorno, e che l’onestà di una civile dedizione siano disposti almeno a vederla, e magari a farla propria.

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