Italiano, peso del «privato» e dovere di chi ha pubblico potere
venerdì 30 giugno 2017

Gentile direttore, ho letto l’interessante contributo di Ferdinando Camon ('Avvenire' 21 giugno 2017 ) sulle competenze linguistiche che ogni maturando dovrebbe possedere e utilizzare. L’articolo è assolutamente condivisibile, tranne nel punto in cui l’autore scrive: «Però quel che succede nel privato, affari loro». È proprio quest’italico vizietto di dividere privato e pubblico a creare cattivi cittadini e a spingere il nostro Paese in una decadenza nella quale sprofondiamo ogni giorno di più. Siamo il Paese nel quale le perdite sono pubbliche, i profitti privati.

Siamo la nazione dove il pubblico è di nessuno, il privato è mio, solo mio e guai a chi lo tocca. Siamo la comunità sociale dove le tasse sono il taglieggiamento di uno Stato inefficiente, ma se l’impresa bancaria sceglie manager incapaci e funzionari codini che hanno solo il merito di essere parenti dei parenti, ah beh, quella è un’altra cosa, anche se vengono danneggiati migliaia di risparmiatori. Tra questi, anche quegli stessi cittadini che inneggiavano all’efficienza del privato fino a dieci minuti prima, salvo poi rivolgersi alle istituzioni per chiedere a gran voce che tutelino i loro soldi.

No, direttore, i maturandi che escono dalla nostre scuole non possono ragionare in questo modo: perché anche quello che succede nel privato sono affari nostri, di tutti, soprattutto se si premiano i Cda milionari che guadagnano quanto basterebbe a risolvere tante piccole crisi imprenditoriali. In Italia manca il senso civico, caro direttore: e la debolezza e la fragilità di molti studenti nella lingua, è l’espressione di questa carenza civica, comunitaria, sociale. La lingua è uno strumento della persona (il privato) all’interno della comunità (il pubblico). Ma per sviluppare buone competenze comunicative (= mettere in comune) occorre saper ascoltare, mentre la capacità di ascolto degli studenti si è limitata drasticamente, come pure quella dei politici, dei call center, delle aziende di servizi, finanche dei nostri vicini di casa, e certamente anche di noi stessi.

Anch’io, che in questi giorni mi trovo impegnata come commissario di italiano e storia all’Esame di Stato, non boccerei assolutamente un maturando per un errore del genere segnalato da Camon. Ma se mi scrivesse nel suo tema una frase come quella del vostro opinionista, affronterei il colloquio di storia cominciando dalla Resistenza e dalle parole di Teresio Olivelli: «Rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa. Liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia sulle nostre famiglie».

Cordialità

Paola Comelli


Gentile professoressa, ma alla fin fine come pensa d’impedire che venga nominato presidente di una grande azienda privata un manager convinto che Waterloo sia stata una vittoria di Napoleone? Io scrivo libri e ho a che fare con editori, padroni di case editrici: se le lasciano ai loro figli, i quali sono incompetenti, come posso io (come può lei) impedirlo?

Sono tifoso di una squadra comprata dai cinesi, i cinesi si muovono sul mercato come vogliono, che cosa posso farci io, cosa possiamo farci noi? Nel campo privato i padroni decidono, perché pagano. Noi possiamo criticarli. È quel che facciamo. Ma loro possono ignorarci. È quel che fanno.

Nel campo statale cambia tutto, perché l’opinione pubblica conta. Perciò ritenevo più grave che un ministro italiano non sappia la lingua italiana. Resto di questo parere.

Ferdinando Camon


Ho lasciato a Camon, come naturale, la risposta. Ma non lascio a lui un’ultima necessaria parola, perché lui non l’ha detta e non la direbbe, forse anche per pudore di sé e di una già lunga storia d’impegno, da uomo e scrittore che non nasconde le proprie opinioni. Dico questa parola perché al principio e alla fine della vibrante e condivisibile lettera-appello della gentile e cara professoressa Comelli c’è a mio avviso un piccolo grande fraintendimento.

La libera e coraggiosa testimonianza letteraria e civile di Ferdinando Camon non ne consente, invece, neppure mezzo.

Nel suo «quel che succede nel privato, affari loro» non c’è resa, c’è giudizio amaro e provocatorio e c’è realistica e sana pretesa di uno spazio pubblico dove almeno la lingua comune, l’italiano, sia davvero tale e rispettata. E c’è la secca, camoniana constatazione che chi abita 'con potere' lo spazio pubblico questo dovere è tenuto a onorarlo non di meno, ma di più. (mt)

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