venerdì 19 maggio 2017
Una riflessione a partire dalle polemiche sulla pubblicazione di dialoghi intercettati durante le indagini giudiziarie sulla Consip. È normale la fuga di notizie su indagini coperte dal segreto?
Un tecnico al lavoro su una centralina telefonica (Ansa)

Un tecnico al lavoro su una centralina telefonica (Ansa)

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Quando un saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito e non la luna. In questi giorni, si è rispolverato l’aforisma per ironizzare sulle polemiche che hanno investito la pubblicazione di dialoghi intercettati durante le indagini giudiziarie sulla Consip. E come negare, del resto, che almeno in parte quei dialoghi lascino trasparire un ennesimo nodo – piccolo o grande, resta da vedere – di un diffuso e malsano intreccio tra affari e politica; che, poi, quell’intreccio sia tra i fattori più preoccupanti di un cattivo funzionamento delle istituzioni e del progressivo calo di fiducia pubblica nella nostra democrazia, è alla vista di tutti. Talora, però, merita vigile attenzione anche chi alza l’indice per mostrare una luna offuscata da nubi torbide e minacciose: tanto più se nell’altra mano ha un’arma (sia pur solo mediatica) non regolare o se, mentre indica l’obiettivo, manda il dito a sbattere nell’occhio di chi guarda, stordendolo e distorcendone la capacità di discernimento. E anche questo è ciò che sta accadendo.

A dimostrarlo non sono soltanto episodi che, se fossero stati inventati da un giallista, avrebbero assai poco di credibile: basti pensare ai dati, trascritti o ricavati con fuorvianti stravolgimenti eppur poi circolati a lungo in quella forma come verità inoppugnabili e come basi per tante illazioni; il tutto, ancor più incredibilmente, venendo poi addebitato dall’autore alla fretta (?) ... A preoccupare maggiormente, e ben più a monte, dovrebbe essere la disinvoltura con cui, ancora una volta, si dà per scontato che sia normale e innocua – anzi, provvidenziale – la fuga di notizie nel corso di indagini giudiziarie tuttora coperte dal segreto e in particolare la divulgazione 'a pezzi' di risultanze di intercettazioni, strumento efficace e spesso essenziale, ma delicatissimo.

Sì: sappiamo tutti che in Italia mai si trovano i primi responsabili della rivelazione, di cui giornali e tv sono i destinatari, anche se raramente i sollecitatori: dunque – siano essi magistrati, ausiliari, o, sia pur nei limiti di una minore e più ritardata possibilità di accesso alla fonte, persino avvocati – i più diretti autori di quello che, lo si voglia o no, è un reato. Ma non è consolante che la storia, ogni volta, si ripeta.

In questo modo finiscono sui media anche veri e propri pettegolezzi, che nulla hanno a che fare con interessi pubblici di alcun genere: ad evitare almeno questi indebiti 'sfregi' della privacy basterebbe però un unanime rispetto di elementari regole deontologiche della professione giornalistica. Un problema più complesso sorge, invece, quando ciò che fuoriesce da un Palazzo di giustizia tocca personaggi pubblici sotto aspetti non altrettanto riconducibili alla sfera del privato. In particolare, nel caso del politico, per la visibilità inscindibilmente connessa alla sua scelta di svolgere un tale ruolo e per le esigenze di trasparenza che ne conseguono, è infatti naturale che rivesta un interesse pubblico la conoscenza di comportamenti che nella specie fanno parte di quanto è di per sé esposto alla valutazione generale. E qui la deontologia giornalistica non può dare, a priori, le stesse indicazioni di prima, salvo a discutere, semmai, sull’uso più o meno strumentale, di sostegno o di contrasto a questa o quella parte politica, che di certe informazioni il cronista o l’opinionista vengano a fare. Pure a questo proposito, però, andiamoci piano prima di trarre conclusioni corrive. Certo, laddove si tratti di notizie relative a comportamenti – accertati o ipotizzati – che possano assumere rilievo penale, l’opinione pubblica deve venirne a conoscenza il più presto possibile; è però rischioso, per la stessa correttezza delle successive decisioni giudiziarie, che notizie (o pseudonotizie), tanto più se frammentarie, fuoriescano prima del momento in cui esse possano sottoporsi, nella loro integralità, a quel contraddittorio che ha la sua sede propria in un’udienza davanti al giudice naturale. Più ancora, le perplessità sorgono quando da un’inchiesta giudiziaria vengano a emergere dati significativi ma privi di rilievo o comunque inutilizzabili nel processo penale: soprattutto in questi casi, l’interesse pubblico all’informazione – pur non inesistente – deve essere messo a confronto con un rischio che non è meno grave degli attentati ai diritti del cittadino. La divulgazione può infatti far sorgere, se non altro, il sospetto che certe iniziative della magistratura, apparentemente motivate dalla ricerca dei reati e dei loro autori, siano mosse da obiettivi di diverso genere, i quali, per commendevoli che siano (e non sempre lo sarebbero), alla magistratura non competono. E la necessità di preservare giudici e pubblici ministeri dal sospetto di indebite ingerenze in campi altrui, e in definitiva di lesioni della loro istituzionale imparzialità, è troppo forte perché la si possa trascurare.

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