Il nuovo testo di legge sulla 'legittima difesa' – approvato dalla Camera dei Deputati e che dovrà superare l’esame del Senato della Repubblica – pone serie problematicità, se letto alla luce dell’insegnamento della Chiesa. Insegnamento appartenente peraltro alla sapienza etica dell’umanità, che la Chiesa fa proprio, approfondisce e trasmette. «La proibizione dell’omicidio – leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica – non abroga il diritto di togliere, a un ingiusto aggressore, la possibilità di nuocere».
C’è un diritto alla vita, che comincia da sé: «È legittimo – è ancora il Catechismo a dirci – far rispettare il proprio diritto alla vita. Chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio, anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale ». Questo diritto diventa un dovere nei riguardi degli altri: «La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri». La difesa della vita altrui – in ragione della sua debolezza, piccolezza, impotenza – «esige che si ponga l’aggressore in stato di non nuocere», con il ricorso, se necessario, anche alla forza. Non intervenire, potendolo fare, configura una complicità omissiva e quindi una colpa. L’esercizio di questo diritto-dovere non è però ad arbitrium, ma «è sottomesso a rigorose condizioni di legittimità morale».
La Chiesa insegna che «si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza». Esse sono essenzialmente tre. La prima è che il ricorso alla forza sia un estremo rimedio. Questo significa che si devono considerare ed esperire prima i mezzi non violenti e meno violenti di dissuasione e di difesa e che questi «si siano rivelati impraticabili o inefficaci ». La seconda è che l’irruzione e la violenza dell’aggressore siano effettive, in atto e non ipotetiche, presunte o possibili. La terza è che la violenza difensiva deve essere proporzionata: non può essere maggiore e causare più mali di quella aggressiva.
Dalla seconda condizione deriva l’illiceità di una violenza preventiva, dalla terza di una violenza vendicativa. Alla luce di questo insegnamento – della logica che lo declina e del buon senso che lo ispira – la legge approvata oggettivamente dà luogo a una deriva arbitraria ed emotivistica della legittima difesa. Arbitraria per annullamento o allentamento delle «rigorose condizioni» di legittimità del ricorso alla forza difensiva. Annullamento/ allentamento provocati dall’introduzione di un «sempre» nell’articolo 1 della nuova legge che modifica quella preesistente.
Essa considera « sempre in stato di legittima difesa» chi, all’interno del domicilio o di un’attività, si difende da un’azione di terzi «posta in essere con violenza o minaccia di armi o di altri mezzi di coazione fisica». È così decondizionato, svincolato, il ricorso alla forza: esso è a sola e inappellabile discrezione dell’individuo che si sente minacciato. La deriva emotivistica della legge è nell’articolo 2, che esclude la punibilità per chi ricorre alla forza «in stato di grave turbamento, derivante da una situazione di pericolo in atto». C’è qui una sopravalutazione del turbamento emotivo.
Chi in uno stato di pericolo non va incontro a uno sconcerto emotivo? Come poi misurarne la gravità? Per la nuova legge l’alterazione emotiva basta a giustificare e rendere impunibile la violenza difensiva. È così mollata la corda della legittimità dell’uso della forza nella difesa e allargata la strada della giustizia fai-da-te. Certo non va sminuita e trascurata l’esasperazione dei cittadini di fronte ai reati di più diretto 'allarme sociale'. La risposta in uno Stato di diritto però non viene da un allargamento o da uno strappo delle maglie della legittima difesa. Viene da una legalità preventiva e punitiva del crimine secondo diritto e giustizia. Legalità che dà sicurezze e certezze ai cittadini, piuttosto che indurli ad armarsi e farsi giustizia da sé.