Di fronte a una crisi sempre più pervasiva e incidente che la pandemia ha enfatizzato, si impongono oggi grandi mutamenti culturali, l’assunzione di criteri di giudizio diversi da quelli ordinari. Gli ultimi, i poveri, in un’ottica di globalità e di interdipendenza diventano chiave interpretativa del vivere sociale. Gli ultimi hanno bisogno dei primi, i primi hanno bisogno degli ultimi. Gli ultimi hanno bisogno della imprenditoria, competenza, scienza, abilità dei primi. I primi a loro volta hanno bisogno degli ultimi per trovare un senso alle loro ricchezze: l’accumulo fine a se stesso non genera una nuova qualità della vita bensì una cultura di disperazione.
Innovazione e trasformazione dei sistemi rappresentano certamente una discriminante ineludibile per le moderne società industriali e postindustriali. Si tratta però di verificare se lo sviluppo e la crescita debbano, necessariamente ed esclusivamente, poggiare sugli squilibri, le disuguaglianze (che il gioco economico finanziario inevitabilmente rafforza), con la conseguente distinzione e selezione tra vincitori e vinti oppure se lo sviluppo e la crescita – nella misura in cui sono autentici – non possano invece trovare stimolo e innesco nella solidarietà creatrice con l’inserimento dei processi di cambiamento in una prospettiva comunitaria, con la diffusione di valori di comunicazione, dialogo, apprendimento, cooperazione, valorizzazione di tutte le risorse.
Certamente la prima alternativa o ipotesi è stata finora largamente maggioritaria. Il progetto di società, proposto come modello all’opinione pubblica, ha fatto leva sull’apologia del migliore (o del più forte): che i migliori (o i più forti) vincano, stabiliscano le regole del gioco, le modalità di risoluzione dei conflitti, di allocazione delle risorse e di suddivisione dei redditi.
La seconda alternativa o ipotesi, nella misura in cui si rivela scarsamente strutturata o strumentata metodologicamente e operativamente, potrebbe apparire come una illusoria o consolatoria fuga in avanti. Purtuttavia la complessità e novità dei problemi dai quali siamo interpellati ci portano ad intravedere in tale alternativa o ipotesi il fondamento di una razionalità più ricca e autentica. Occorre allargare il campo, occorre ragionare per futuri possibili a partire dai pezzi di progetto che sono elaborabili dai vari protagonisti sociali. Vincoli e possibilità possono essere spostati in avanti, liberando nuove energie e nuove risorse. Sulla scena del mondo non ci sono problemi settoriali, ma interdipendenti. Diritti umani e sociali, ambiente, educazione, sviluppo, scambi commerciali, salute, conflitti, instabilità sono altrettante tessere di un unico mosaico sul quale si gioca la possibilità di una buona società in cui vivere a scala globale. Il sapere scientifico-tecnologico, la comunicazione, la rete, ma anche la paura di processi incommensurabili e incontrollabili in termini di rischio, quasi per assurdo, unificano in comunità la globalità degli uomini con la loro storia, cultura, appartenenze. Lotta alla povertà e sviluppo sostenibile – come evidenzia la Laudato si’ – sono le due facce della stessa medaglia. L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme o si salvano insieme. Qui sta il punto di forza del quale ha bisogno la leva della razionalità sia per capovolgere situazioni di ingiustizia e esclusione che non possono più essere accettate dalla comunità mondiale, sia per cogliere e valorizzare tutte le potenzialità del bene condiviso.
Messo con le spalle al muro l’uomo deve ricostruire se stesso. Il sentiero è stretto ma percorribile. Non mancano segni di inquietudine e anche di speranza. Sempre più ci si interroga sulla validità e sui rischi dei modi di agire a livello di produzione, consumo, utilizzo delle risorse ambientali. Si fa strada la consapevolezza della necessità di modelli plurali e interdipendenti di modernizzazione, in grado di sviluppare le capacità e le peculiarità delle persone secondo le loro specificità a partire dai più deboli. Ci si accorge che non si è soli e che si è responsabili verso gli altri che dipendono, per il bene e per il male, dalle nostre azioni. E la catena della responsabilità non ha confini né di spazio né di tempo.
Professore emerito nell’Università di Genova