Uno dei tre referendum promosso dalla Cgil – sulla cui ammissibilità la Corte costituzionale è chiamata a pronunziarsi oggi – ha per oggetto l’abrogazione integrale della disciplina in tema di lavoro accessorio, contenuta negli articoli da 48 a 50 del decreto legislativo 81/2015 in attuazione delle legge delega nota come Jobs Act. Si tratta di una norma che, rimuovendo molti dei limiti originariamente previsti nella disciplina stabilita nel 2003 a seguito della Legge Biagi (poi modificata anche dalla riforma Fornero), ha ora ammesso il pagamento attraverso voucher per attività lavorative che danno luogo, complessivamente, a compensi individuali non superiori a 7.000 euro nel corso di un anno civile (con un ulteriore limite di 2.000 euro per ogni singolo imprenditore). I proponenti ritengono che dietro questa forma di lavoro, pensata originariamente per specifiche attività di nicchia (ripetizioni private, aiuto nel lavoro domestico, attività di giardinaggio), si annidino inaccettabili forme di sfruttamento.
E in effetti non sono poche le denunce, in particolare di giovani, ai quali viene offerto il pagamento in buoni, in luogo di contratti a termine o stagionali, o per un numero di ore di lavoro minore di quello effettivo. Motivo per cui nel settembre 2016 sono state introdotte correzioni alla disciplina originaria, specificando che quanti ricorrono a prestazioni di lavoro da pagare mediante voucher «sono tenuti, almeno 60 minuti prima dell’inizio della prestazione, a comunicare alla sede territoriale competente dell’Ispettorato nazionale del lavoro, mediante sms o posta elettronica, i dati anagrafici o il codice fiscale del lavoratore, indicando, altresì, il luogo, il giorno e l’ora di inizio e di fine della prestazione».
La proposta sembra dimenticare, però, che le disposizioni del Jobs Act possono considerarsi come applicazione di quelle indicazioni che provengono dalle Istituzioni europee che, nella prospettiva di contrastare il lavoro «non dichiarato» (o, come si dice, 'in nero') impongono ai singoli Stati una semplificazione normativa, diretta ad alleggerire le incombenze burocratiche necessarie all’instaurazione di un rapporto di lavoro (si veda la Risoluzione del Consiglio sulla trasformazione del lavoro non dichiarato in occupazione regolare 2003/C 260/01, punto 2.4).
Nello stesso tempo non si può dimenticare il fatto che i voucher, mediante l’indicazione di un minimo salariale orario standard per tutte le attività che trovano compenso attraverso la sua corresponsione, pari a 10 euro, per un netto di euro 7,50 (salvo che per il settore agricolo, dove si considera il contratto di riferimento), finisce per costituire un punto di riferimento imprescindibile per la possibile introduzione di una retribuzione oraria minima, riprendendo anche in questo caso precise indicazioni provenienti dalla Commissione europea (come la comunicazione COM(2012) 173 final). Già in passato la Corte costituzionale italiana, chiamata a decidere sull’abrogazione della legge in materia di lavoro a tempo determinato con la sentenza 41 del 2000, ritenne inammissibile il referendum in quanto questo avrebbe potuto, in caso di vittoria dei 'sì' determinare una situazione di inadempimento alle obbligazioni derivanti dai trattati.
Una soluzione simile apparirebbe possibile anche oggi, pur in assenza di una specifica norma cogente europea, posto che le indicazioni della Commissione e del Consiglio nell’ambito delle politiche per l’occupazione vengono comunque a costituire una guida per l’ordinamento italiano che, in caso di vittoria abrogazionista nel voto referendario, verrebbe a trovarsi privo di uno strumento di contrasto al lavoro irregolare.