Ansa
«Non sparate!» è il titolo della canzone che è diventata il simbolo del tour di Zemfira. La star del poprock russo, il cui nome completo è Zemfira Talgatovna Ramazanova, il 26 febbraio ha dato il suo ultimo concerto in Russia mentre per le strade delle città della Federazione in molti manifestavano contro la guerra e andavano incontro ad arresti di massa. Poi, la decisione spegnere le luci del suo sito e lasciarvi solo il brano contro la guerra e abbandonare il Paese insieme a Renata Litvinova. Quest’ultima, notissima attrice, regista e molto altro, è da anni autrice e protagonista delle clip delle canzoni di Zemfira. Sono di Litvinova anche i disegni dell’ultimo brano inciso dopo gli orrori di Mariupol. Il titolo è emblematico: “Miaso”( carne). Una canzone breve, ma con parole e musica di intensità durissima, sofferta, quasi brutale quanto la violenza che ha insanguinato quella città e tutte le altre in cui l’esercito russo ha colpito senza pietà. «Guardami: arrenditi o rimani uomo e muori. Mia moglie aspetta un bambino, aspetta me e scarpe da ginnastica. La primavera è nel calendario, invece ci sono trincee e missili ad alta precisione a lungo raggio. È mezzanotte a Mariupol. Ho incubi ogni notte. Aspetto le razioni e mi congelo, quelli dei “200”. Vorrei abbracciarti ... Siamo arrivati. Dove siamo venuti? Perché siamo venuti? Cercherò una risposta per il resto della mia vita». Il riferimento ai “200” è al termine che in gergo militare russo richiama le salme recuperate dal campo di battaglia rimpatriate via aereo, in bare di zinco.
Quando la speranza che la guerra finisse rapidamente è svanita, Zemfira è uscita dal silenzio, ha riunito parte della sua band e ha organizzato una tournée internazionale. Istanbul, Tel Aviv, Vienna, Amburgo, Berlino, Offenbach, Parigi, Londra, L’Aia. Tutte città dove è presente la vecchia e nuova diaspora russa. Tanti sono i giovanissimi che alla deriva sempre più dittatoriale del proprio Paese non hanno resistito e hanno cercato ogni modo per andarsene. È la storia delle centinaia di migliaia di persone che dal 24 febbraio in poi hanno visto svanire sogni di una vita, lo studio, il lavoro, la famiglia, il fidanzato o la fidanzata, gli amici più cari, i nonni che potrebbero non vedere mai più. Tutto alle spalle, una valigia e davanti l’incognita del futuro. Giudicare chi fa la scelta dell’esilio con eccessiva facilità vuol dire ignorare quanto questa scelta possa essere dolorosa. Nessuno sa quanto la guerra durerà, e quando la Russia potrà riaccogliere le persone che non accettano questa guerra. Chi per non essere mandato al fronte, chi per potersi esprimere liberamente e magari svolgere un ruolo importante per assicurare la controinformazione. Un servizio prezioso sia verso la Russia attraverso il web sia verso l’opinione pubblica occidentale che ha bisogno come il pane di fonti libere e informate quotidianamente dal mondo russo in grado di interpretare fatti e persone altrimenti ignote o difficili da capire se si dovesse contare solo sul mainstream.
Come in tutte le situazioni tipiche di un conflitto, di una dittatura, si verifica il fenomeno dell’incomprensione e del dissapore fra oppositori “interni” ed “esterni”. La scelta di partire è vissuta da chi è rimasto come un abbandono, un tradimento. «Ci hanno lasciati soli invece di rimanere a combattere insieme il regime» è una frase che ho sentito più volte. Naturalmente ci sono casi e casi, con sfumature che fanno capire come a volte restare avrebbe voluto dire tacere o affrontare il carcere. Le ricadute del proprio agire non sono solo su te stesso ma anche sui tuoi cari. I tuoi figli, il coniuge, i genitori anziani. È il caso di un’amica giornalista siberiana: dopo aver perso il lavoro a causa della censura che ha spento la sua tv indipendente ha visto svanire la possibilità di mantenere i suoi figli e così ha ceduto e oggi è all’estero, dove – pur tra mille difficoltà – continua il suo lavoro che è giornalismo e al tempo stesso impegno civile.
Il caso più forte e noto è quello della “Novaya Gazeta Europa” che Kirill Martynov ha insediato a Riga. Certamente la solitudine e l’abbandono vissuto da chi resta è pesante. Oltretutto non tutti possono partire, anche volendo. Vorrebbe dire affrontare un futuro incerto, perdere la casa, il lavoro, abbandonare un padre, la madre anziana, tradire i doveri di cura e l’affetto verso di loro. Non tutti hanno facilità di approdo accogliente in Occidente. Tanto meno oggi, tra sospetti e ostilità per il solo fatto di essere russi. Restare, come ricorda la testimonianza vivente di Muratov, vuol dire fare i conti con una realtà aspra, in cui apparentemente il sistema non sembra collassare, ma dove è essenziale continuare nell’esercizio della ragione contro la guerra e la repressione delle libertà. Si conta sulla consapevolezza che nonostante la repressione e la propaganda, inclusi i sondaggi e la rappresentazione occidentale monolitica della Russia come fosse tutt’uno con Putin, un’altra Russia esiste e può contare su quelle che Muratov chiama «spine dorsali» della coscienza civile.
È dura, ma rassegnarsi è impossibile, per chi ha una coscienza. Così accade che ogni giorno, non solo fra le mura di casa, ma in occasione di concerti o altri eventi – si pensi al tennista Andrej Rublev, che dopo aver battuto il connazionale Daniil Medvedev alle Atp finals di Torino ha scritto sulla telecamera: «Peace, peace, peace is all we need» – artisti osano esprimersi contro la guerra. Uno di questi è il popolare cantante Leonid Agutin oppure Denis Skopin, il professore dell’Università Statale di San Pietroburgo della Facoltà di Arti e Scienze libere licenziato per avere partecipato a una manifestazione contro la mobilitazione decisa da Putin. L’accusa è di «essersi impegnato in un atto immorale incompatibile con la continuazione del lavoro didattico» … Agli studenti riuniti davanti all’Università per salutarlo ha detto che «una protesta pacifica non può essere immorale». Quegli studenti sono un’espressione libera di condivisione delle sue idee. Voci che continuano a resistere pagando un prezzo altissimo per la loro scelta. Altri non ce la fanno e si arrendono all’angoscia, a una situazione che fa disperare e di cui non vedono fine.
Purtroppo, sono diversi i casi di giovani che in questo periodo, dall’inizio della guerra, si sono tolti la vita. Tra questi Rostislav Karelin, il ragazzo di 21 anni nato a Kiev e trasferitosi con la madre in Russia quando aveva 10 anni di cui ha raccolto la storia il media indipendente “Holod”. Rostislav pochi giorni dopo aver pubblicato un post contro la guerra su Instagram è stato espulso dall’Accademia della protezione civile di cui era studente al 4° anno. Un altro giovane, il rapper Ivan Petunin di 27 anni, noto come Walkie non ha retto a questi mesi di orrore della guerra e all’ultima mobilitazione. Si è tolto la vita a Kasnodar dopo aver postato un lungo video sui social prima in cui spiega il perché della sua decisione: «Non posso caricare il peso del peccato dell’omicidio sulla mia anima e non voglio. Non sono pronto a uccidere per nessun ideale». Ivan aveva composto e cantato un brano insieme al suo amico rapper ucraino Artem Lojk. Giovani vite figlie di un mondo dove non esiste la separazione delle identità, tantomeno una guerra fratricida. Storie che ci dicono che a far morire sotto i colpi delle armi, in questi mesi, è chi vuole spegnere il desiderio di un mondo in cui la Russia e l’Europa possano vivere in pace.