In morte di Marek (solitudine e carità)
venerdì 20 dicembre 2019

Ho visto Marek l’ultima volta il 27 settembre. Lo ricordo bene. Per tutta la giornata avevo seguito tra i ghetti del Foggiano, il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere di papa Francesco. Un viaggio tra gli scartati, i dimenticati, tra i loro drammi, le loro richieste. «Qui fa freddo, fate qualcosa», aveva implorato un immigrato. La sera, a San Severo in compagnia del direttore della Caritas diocesana, don Andrea Pupilla, reduce anche lui dal viaggio col cardinale, stavo cercando un posto dove cenare, per provare a "staccare" dall’ennesimo duro impatto con la sofferenza. Ma la sofferenza ci aspettava ancora per strada.

La luce blu dei lampeggianti di un ambulanza ferma davanti a un parco pubblico. «È Marek», mi dice don Andrea, preoccupato, accelerando il passo. Già, l’ambulanza è ferma proprio davanti a una panchina, la panchina di Marek, senza fissa dimora, "barbone" polacco di 55 anni. La sua panchina, la sua "casa". E Marek è lì, assistito dagli infermieri dell’ambulanza. Sta male, come altre volte, forse di più. Qualche mese prima lo avevo già incontrato, proprio qui, sulla sua panchina, tra i tipici pacchi degli "uomini chiocciola" che tutto si portano dietro, e il cibo che tanti gli regalavano. Non stava bene. Un occhio molto gonfio, probabilmente per una caduta. «Marek non devi bere, vedi cosa ti succede?», gli aveva detto gentilmente, ma con fermezza, don Andrea. Poi aveva provato a convincerlo ad andare in ospedale per farsi ricoverare. Inutile. Marek non chiedeva mai, non voleva essere aiutato. In Italia da più di dieci anni, allontanato da non chiare difficoltà familiari, aveva trovato casa in quella panchina. Non aveva mai accettato di andare a dormire nell’ostello della Caritas, a meno di cento metri di distanza. Centro ordinato, pulito, efficiente e accogliente (ci dormo anche io quando vengo a San Severo per raccogliere le storie dei ghetti). Ma come accade non poche volte, alcuni senza fissa dimora non accettano di essere ospitati. Scelgono la strada, la panchina.

Così anche Marek. Veniva alla Caritas, prendeva qualcosa da mangiare, qualche vestito, ma poi tornava alla sua panchina. Non era triste. No. Sorrideva sempre. Sempre gentile. E a tutti diceva "Auguri!", una delle poche parole italiane che aveva imparato bene. Così quella sera di luglio, anche con l’occhio gonfio, quasi chiuso. Aveva promesso a don Andrea che il giorno dopo sarebbe andato dal dottore. Chissà se lo ha mai fatto. Ma il 27 settembre il suo fisico è crollato. E questa volta non ha detto di no al ricovero. Non ha voluto o non ha potuto. Lo abbiamo salutato mentre l’ambulanza lo portava via. A stare meglio, abbiamo pensato.

Due giorni fa chiamo don Andrea per farmi aggiornare sulla situazione del "gran ghetto" dopo il grave incendio che il 3 dicembre ha distrutto quasi metà delle baracche. Cellulare staccato. Dopo un’ora mi richiama. «Scusa stavo celebrando il funerale di Marek». Sì, proprio lui. Mi racconta che dopo il ricovero non si è più ripreso, è entrato in coma e tre giorni fa è morto. Strappato dalla sua panchina, da quella sua vita, che certo vita vera non era, non è stato capace di reagire o non ha voluto. È la vita e spesso la morte di queste persone, gli irriducibili della strada che tutte le sere, uscendo dalla redazione romana di "Avvenire", incontro rientrando a piedi a casa, passando nella zona della stazione Termini. Un piccolo popolo di ombre in carne e ossa. Cariche di complicate sofferenze, difficili da aiutare come mi hanno spiegato tante volte i volontari della Caritas che comunque non si arrendono mai, nell’avvicinarli, nel parlare, nel provare a scalfire quelle corazze fatte di solitudine scelta. Soprattutto italiani, ma anche immigrati dell’est Europa. Come Marek che pur aiutato ha scelto di vivere la sua strada da solo. E solo è morto.

Il funerale è stato celebrato da don Andrea e altri due sacerdoti, padre Andrea e padre Cristiano, che lo avevano conosciuto e seguito. È stato sepolto ieri mattina nel cimitero in uno spazio messo a disposizione dal Comune che ha pagato le spese. La parrocchia di San Bernardino dove si sono svolti i funerali e che Marek frequentava abitualmente ha partecipato con una piccola colletta. «Gli abbiamo chiesto scusa - mi dice commosso don Andrea - per le volte che la sua presenza, pur così discreta, ci infastidiva. Ma anche grazie. Ha anticipato il Natale, perché i poveri ci evangelizzano, ci schiodano dalle nostre certezze». Tre sacerdoti a rappresentare una comunità che non lo aveva dimenticato, che aveva provato ad aiutarlo. E che lo ha accompagnato, non più solo, lui Marek senza casa, alla Casa del Padre.

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