Caro direttore,
salvare i vivi, dare un nome ai morti. Lo chiede la comune condizione umana e la misericordia cristiana. Sono le leggi «non scritte degli dèi», di cui parla Antigone quando pretende di dare degna sepoltura al fratello. Lo impone il diritto dei diritti umani. Eppure, questi semplici atti che non dovrebbero trovare obiezione sembrano trovare una deroga quando si parla delle vittime del Mediterraneo, il nostro mare delle stragi quotidiane.
Forse perché sono troppi? I 180.000 arrivi del 2016 e i 25.000 nel primo trimestre 2017 (tra cui 2.200 minori non accompagnati) rappresentano un fenomeno imponente. Ma la paura non può giustificare l’inerzia europea e ora anche le campagne di diffamazione contro chi soccorre in mare. Per dire no alla chiusura e al desiderio di considerare “meno umani” i migranti, la Camera ha approvato una mozione (336 sì e 52 no di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia) che chiede al Governo di identificare i morti nel Mediterraneo, forse 30.000 negli ultimi 15 anni, più del 60% senza nome. Migliaia di familiari senza notizie sono rimasti nell’angoscia, senza sapere nulla dei loro cari; chiedono di piangere i loro morti i genitori, le vedove, i figli, i fratelli e le sorelle, sospesi tra rassegnazione e ancora speranza. Dare un nome alle vittime è un diritto fondamentale, previsto in tutto il diritto internazionale, che vale per i disastri aerei o per le catastrofi naturali: perché non dovremmo cercare di identificare anche i corpi di ragazzini, uomini, donne e bambini affondati con i loro barconi fatiscenti?
Il peschereccio azzurro partito dalla Libia, ora al pontile Nato di Melilli, a Siracusa, che il Governo ha voluto recuperare, e che speriamo resti come monumento alla memoria a Milano, portava quasi 800 persone, di cui ne sono sopravvissute meno di 30. Era un carico di adolescenti con cucite addosso, nella plastica, le pagelle scolastiche, un sacchetto di terra del loro Paese o i guanti di Spiderman. Quando la nave è affondata, il 18 aprile 2015, molti erano nella “terza classe”, cioè sotto le sentine di legno da cui non sarebbero riusciti a uscire. Il nostro Paese si è assunto il compito di identificarli, anche se non sono italiani. Non c’è modo migliore di salvare l’onore di un Paese, anche quando le illazioni e le generalizzate polemiche sulle associazioni che salvano generosamente e volontariamente i profughi ispirano un senso di vergogna.
Rendono orgogliosi anche gli esempi dei Comuni come Scicli in Sicilia o Tarsia in Calabria che hanno scelto di ospitare cimiteri internazionali di migranti. Il modello di identificazione delle vittime, tutto italiano, è frutto della collaborazione di una task force inter-istituzionale tra l’ufficio del Commissario per le persone scomparse del Ministero dell’Interno, che va potenziato, di più di dieci università italiane coordinate dal Labanof dell’Università degli Studi di Milano, con Vigili del fuoco, Questure, Prefetture. Va chiesto però al Governo di fare di più, per i vivi e per i morti: facilitare la ricerca di dati post mortem sui cadaveri e promuovere la raccolta di dati ante mortem degli scomparsi, in cooperazione con le istituzioni internazionali, tra cui il Consiglio d’Europa che, anche con la Cedu, da sempre afferma il diritto al riconoscimento. La pietas verso gli scomparsi, colpevoli solo di cercare un futuro migliore, restituisce loro la dignità negata.
*Deputata di Democrazia Solidale Centro Democratico E presidente Alleanza parlamentare “No Hate” del Consiglio d’Europa