In Libia è urgente e decisivo un passo avanti dell'Europa
mercoledì 15 luglio 2020

Caro direttore, in Libia l’Europa non c’è. Mediare non dovrebbe significare non fare nulla. Essere sopra le parti non dovrebbe significare disinteressarsi di quanto accade. Non dovrebbe, ma è quello che accade ed è davanti agli occhi di tutti. Ci sono i singoli Stati, anche contrapposti tra loro, ma non c’è l’Europa. Ormai il ricordo di una Libia senza guerra è lontano; un conflitto che in questi anni ha cambiato protagonisti e schieramenti uniti solo dalla comune volontà di non trovare una soluzione pacifica. Molto si potrebbe dire su come siamo arrivati a questo punto, ma è più importante cercare di capire se e come sia possibile fare un passo avanti. In Italia spesso riduciamo la vicenda libica al doppio binario 'interessi petroliferi' ed 'emergenza migratoria', come se in fondo a noi interessasse solo questo, e non invece contribuire a trovare una soluzione di pace e democrazia duratura in un Paese che è a soli 400 chilometri da Lampedusa e a cui siamo legati da secoli e che riveste un’importanza primaria a livello geostrategico. In Europa l’appoggio francese al generale Haftar contro il governo di al-Sarraj – riconosciuto dalla comunità internazionale – ha finito per frenare ogni iniziativa continentale. Nel frattempo altri soggetti, in particolare Turchia, Russia ed Egitto – ma non solo loro – utilizzano l’immobilismo europeo per giocare un rilevante ruolo politico-militare con l’obiettivo di accrescere la propria influenza e sfruttare le risorse energetiche libiche.

Questa situazione rischia di portare a una spartizione, magari non esplicita ma effettiva, del territorio tra Turchia da una parte ed Egitto e Russia dall’altra. L’Europa non può permettersi di restare inerme e immobile; al contrario dovrebbe e potrebbe essere il motore diplomatico in grado di avviare quel percorso democratico inclusivo che è forse l’unica speranza per una Libia unita e indipendente dalle diverse potenze che vorrebbero spartirsela. Per farlo bisogna coinvolgere tutti gli attori in campo, riconoscendo anche il ruolo secolare, ma sempre attuale delle tribù, in uno scenario che è ben più complicato della semplice contrapposizione tra i sostenitori di al-Sarraj e quelli di Haftar. Il punto di partenza imprescindibile è che in Libia un governo riconosciuto dalla comunità internazionale c’è. Mettere sullo stesso piano un governo legittimo e un esercito che lo combatte non solo è contrario al diritto internazionale, ma ha finora minato l’efficacia e la credibilità di ogni tentativo della diplomazia italiana ed europea. Equiparare aggressore e aggredito è stato un errore e ha reso marginale l’Europa come dimostrato dal fallimento della Conferenza di Berlino che non ha portato ad alcun risultato.

Non si può pensare che il riconoscimento internazionale non valga nulla, sia solo un atto formale senza nessuna conseguenza. Troppo spesso in Europa, e talvolta purtroppo anche in Italia, abbiamo guardato al conflitto sperando di capire su chi puntare per assicurarci una buona vincita, sia essa il controllo delle frontiere o lo sfruttamento dei pozzi petroliferi. Abbiamo perso tempo prezioso aspettando di capire chi avesse la meglio in un conflitto sanguinoso con il solo timore di schierarsi con il perdente. Questa strategia non solo si è rilevata inefficace e cinica, ma anche crudele: sono trascorsi anni segnati da atrocità indicibili anche nei confronti di civili inermi. I dati forniti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim/Iom) e dall’Acnur/ Unhcr, rivelano che oggi vi sono circa 400mila libici che hanno dovuto lasciare le proprie case e migrare all’interno del Paese a causa delle condizioni di sicurezza completamente assenti.

Ad essi si aggiungono circa 50 mila rifugiati ufficialmente registrati. Numeri che rappresentano persone in carne e ossa. Uomini, donne, bambini che lasciano la propria casa, la propria famiglia affrontando la fame, la miseria, senza sapere se e quando potranno tornare dove vivevano. Poi c’è un dato politico-diplomatico quasi ovvio: solo con un ruolo attivo si può aspirare a essere riconosciuti come un interlocutore credibile per il futuro. Perché l’Unione Europea possa avere quel ruolo diplomatico che le spetta è bene che i singoli interessi nazionali facciano un passo indietro. In caso contrario sarà sempre un’azione diplomatica monca in partenza. Ecco perché non si può più rinviare un’iniziativa europea in Libia a partire dall’imposizione di un vero embargo sulle armi per tutti gli attori coinvolti e modificando in senso umanitario le missioni navali nello stretto di Sicilia.

Oggi l’embargo, attraverso l’operazione Irini – a cui partecipa anche l’Italia – sta iniziando a funzionare, ma deve comprendere anche le armi che per via aerea arrivano al generale Haftar. Il Parlamento europeo, più slegato dalle logiche dei governi nazionali, può occuparsi di questa sintesi. È necessario uscire dalla palude dell’immobilismo e proiettare i nostri valori aldilà del Mediterraneo. È uno sforza difficilissimo ma non provarci sarebbe un errore drammatico.

Relatore permanente sulla Libia per il Parlamento europeo

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