È per molti versi un viaggio-laboratorio quello che il Papa sta compiendo in questi giorni in Colombia. Più precisamente viaggio in quel laboratorio del quale il Paese latinoamericano ha assunto i connotati nel momento stesso in cui ha deciso di sperimentare, pur tra molte comprensibili difficoltà, il percorso di pace che ora sembra giunto a un passaggio decisivo e, si spera, irreversibile. E per ciò stesso viaggio anche all’interno di un continente, che prova e riprova a cercare una sua via allo sviluppo e alla pacifica convivenza dopo la stagione delle tragiche dittature militari e delle ubriacature marxiste del secolo scorso e quella più recente (e non del tutto conclusa) degli etnocaudillos alla Chavez.
La presenza del Pontefice, l’entusiasmo con cui è stato accolto dalla gente, l’eco delle sue parole – dirette in primo luogo alle diverse componenti della società colombiana – sono un robusto incoraggiamento a proseguire e concludere positivamente l’esperimento. Ma possono e devono anche diventare un fattore di espansione dell’ampiezza del laboratorio ben oltre Bogotà e dintorni.
In effetti, man mano che l’itinerario papale si snoda attraverso le diverse tappe (ieri a Villavicencio, oggi a Medellin, domani tappa finale a Cartagena) appare sempre più chiaro che la visita va inquadrata in un contesto geopolitico e pastorale ben più ampio e finisce per assumere un respiro veramente continentale.
Da un lato, infatti, il ruolo svolto da Francesco, dalla diplomazia vaticana e dalla Chiesa locale nel processo di riconciliazione nazionale della Colombia richiama alla memoria l’analoga iniziativa messa in atto con successo nella distensione tra Cuba e gli Stati Uniti e fa volgere lo sguardo al drammatico momento del Venezuela, al quale il Papa sta dedicando grande attenzione, oltre che da Roma, anche durante questa visita.
Dall’altro, questo viaggio apostolico ridisegna anche gli aspetti più pastorali dell’azione della Chiesa, soprattutto con il riferimento esplicito alla Conferenza di Aparecida e alla sua persistente eredità, come ha ricordato lo stesso Pontefice ai membri del Celam, il Consiglio episcopale dell’America Latina.
Nel suo "viaggio-laboratorio", in sostanza, papa Francesco sta maneggiando con cura e competenza tutti gli strumenti evangelici a disposizione degli artigiani della pace. La volontà di una riconciliazione «concreta» (anche con la natura, oltre che tra gli uomini) che spezza la spirale della vendetta, come ha detto al cospetto dei politici colombiani e ripetuto ieri nella giornata della riconciliazione nazionale a Villavicencio. La responsabilità di ognuno che disperde le tenebre della violenza, dell’ingiustizia, della povertà, del malaffare e del narcotraffico, come ha raccomandato durante la Messa a Bogotà. La capacità dei giovani di sognare un Paese finalmente libero dalla "cultura" della morte, come ha sottolineato nell’incontro con le nuove generazioni. E la missione di promuovere, come ha esortato nell’udienza ai vescovi, dialogo verso tutti evitando scelte di parte.
Riecheggia nei suoi discorsi la grande lezione di Giovanni XXIII e della Pacem in terris. In particolare, l’indicazione dei quattro pilastri – giustizia, verità, libertà, amore – senza i quali la pace è destinata a restare in balia degli eventi, come una casa costruita senza regole antisismiche. È chiaro che in questo, il ruolo della Chiesa latinoamericana, illuminata dall’agenda di Aparecida («tesoro la cui scoperta è ancora incompleta», ha sottolineato Francesco), sarà determinante.
Il Papa vuole una Chiesa di popolo, tutta tesa alla missione, capace di parlare con gioia al cuore dell’uomo e sempre più libera da qualunque ideologizzazione del messaggio evangelico. Se questa Chiesa, come può e deve avvenire proprio in Colombia, saprà interpretare le attese più vere del popolo e accompagnare verso le risposte, sarà stato fatto non solo il primo passo (come è nel motto del viaggio), ma un discreto tratto di cammino. E dal "laboratorio-America Latina" uscirà finalmente il prezioso gioiello della pace.