Le elezioni italiane cadono in un momento molto delicato. Il Covid e la guerra in Ucraina hanno ormai incrinato gli assetti fondamentali della globalizzazione anche se non sappiamo ancora verso quale mondo stiamo veleggiando. Ed è auspicabile che, di fronte ai passaggi rapidi della storia, anche i sistemi politici siano capaci di adattarsi alle trasformazioni in corso. Per questo, l’auspicio è che, nei prossimi due mesi, la campagna elettorale non si avviti in esasperati tatticismi e in contrapposizioni e slogan aspri e personalistici, ma permetta di chiarire le prospettive che le diverse forze politiche vogliono offrire al Paese.
La struttura parzialmente maggioritaria del Rosatellum (la legge elettorale attualmente in vigore) e la forte riduzione dei seggi di Camera e Senato spingono verso la polarizzazione tra un centrosinistra a guida Letta e un centrodestra a guida Meloni. Le cose sono più complicate di così. Ma non c’è dubbio che questa semplificazione può aiutare a capire meglio la posta in gioco dell’appuntamento settembrino. Negli ultimi anni, i sistemi politici occidentali si sono ristrutturati attorno alla polarità tra progressisti e populisti (altrimenti detti sovranisti). Il termine progressista si è affermato dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del marxismo. Negli anni, come avevano intuito Pierpaolo Pasolini e Augusto Del Noce, i partiti di sinistra hanno progressivamente cambiato pelle, diventando sempre più simili a «partiti radicali di massa». Lo conferma il fatto che la loro base elettorale non è più costituita dai ceti operai (numericamente molto ridotti) quanto piuttosto dal ceto medio istruito, oltreché dalle componenti più tecnologiche e sostenibili del capitalismo contemporaneo. Lungo questa linea evolutiva, i progressisti sono diventati partiti di governo, con stretti legami con l’ establishment internazionale, fortemente associati all’idea di società aperta, cosmopolita, valorialmente neutra. Ecco perché i diritti individuali costituiscono un elemento di riferimento centrale di queste forze politiche. Al fondo del pensiero progressista c’è la fiducia che conoscenza, tecnologia, uguaglianza, libertà, democrazia costituiscano un pacchetto omogeneo di riferimenti in grado di spingere avanti la società attraverso la parità delle opportunità.
Come è evidente guardando la scena internazionale, questa cultura politica si trova oggi davanti a due dilemmi. In primo luogo, il tema della disuguaglianza, che, pur ritornando spesso nei discorsi dei leader della sinistra, rimane per lo più solo nominata. Il problema è che è molto difficile riuscire a tenere insieme la forte spinta all’innovazione con l’integrazione sociale. Non a caso, in diversi Paesi, nella sinistra contemporanea si va rafforzando una linea più critica, rappresentata da Melanchon in Francia e Sanders negli Stati Uniti. Il secondo dilemma riguarda i temi culturali: nella dinamica del cambiamento continuo, valori, tradizioni, riferimenti culturali debbono cambiare, dentro una logica evolutiva. Da qui le forti resistenze che si manifestano sia nelle dinamiche politiche interne che internazionali. È chiaro che la crisi della globalizzazione costringe i progressisti a reinterrogarsi su queste due questioni centrali che rischiano di diventare esplosive.
Dal canto loro, il cemento dei partiti populisti – che hanno preso il posto dei partiti conservatori – è proprio la reazione al modello di una globalizzazione lineare basata sull’idea di cambiamento continuo. La loro composizione sociale tiene insieme le parti più tradizionali degli interessi economici, i ceti medi arrabbiati che vedono messo a rischio il loro livello di benessere, le componenti culturali e religiose che rifiutano la neutralità culturale dei progressisti. Ma, come si è chiaramente visto negli anni del Covid, spesso i populisti sono più bravi a protestare che a governare: la direzione che propongono di seguire non è chiara e le loro terapie (come ad esempio le politiche anti-immigrati o il controllo arcigno dei confini nazionali) sono spesso più slogan generici che opzioni disponibili. In più, i populisti hanno continuato a mantenere qualche ambiguità nei loro rapporti con forze antisistema e a cavalcare alcune spinte regressive presenti nelle società avanzate (a partire da xenofobia e razzismo). Col rischio di aggravare le tensioni sociali. Così i populisti, al di là della protesta, hanno il dovere di chiarire meglio il mondo che immaginano e come pensano di realizzarlo.
Tenuto conto che la prossima legislatura dovrà riposizionare l’Italia in un nuovo contesto europeo e internazionale, con uno scenario economico complesso scosso da forti tensioni (interne e internazionali) sul mercato del lavoro e nella dinamica energetica, si capisce qual è la vera posta in gioco alle elezioni del 25 settembre: che cosa viene dopo il progressismo e il sovranismo che abbiamo conosciuto negli ultimi anni?
Al di là degli slogan lanciati per raccogliere un voto in più, quello che gli elettori chiedono ai partiti e di chiarire come vogliono collocarsi nel contesto attuale. La speranza è che chi uscirà vincitore dalle urne sia capace un passo per volta, di costruire un nuovo baricentro che porti la società italiana ad affrontare le tante sfide dei prossimi anni.