«Questo chiedono a Dio gli abitanti di Urakami che piangono prosternati nella cenere: che la loro città sia l’ultima nel mondo resa deserta dall’atomo. Gridano a tutti gli uomini: “Non fate più guerre! Seguiamo la legge suprema di Dio, amiamoci! Restiamo uniti, lavoriamo insieme per il bene di tutta l’umanità”».
Con queste parole si conclude il libro “Le campane di Nagasaki”, un diario dell’anima scritto da Takashi Paolo Nagai, medico radiologo testimone dell’esplosione che il 9 agosto 1945 seminò terrore, distruzione e morte (80mila nel giro di cinque mesi) tre giorni dopo l’analogo evento di Hiroshima. Urakami è il quartiere che fu l’epicentro dell’esplosione, e proprio lì Takashi Nagai trascorse gli ultimi anni della vita minata dalla leucemia contratta in seguito alle radiazioni a cui la professione l’aveva esposto. Nell’esplosione aveva perso amici e colleghi e soprattutto l’amata moglie Midori, grazie alla quale aveva conosciuto e poi abbracciato la fede cristiana. Quando era andato a cercarla nel luogo dove abitavano, aveva trovato di lei solo un mucchio di ossa, frammenti del bacino e della colonna vertebrale e, accanto, il rosario che la donna aveva tra le mani: segno di una fede profondamente radicata, ereditata dalla tradizione dei “cristiani nascosti” che per duecentocinquant’anni avevano tramandato di padre in figlio il Tesoro della loro esistenza, vivendo in clandestinità per sottrarsi alle persecuzioni delle autorità giapponesi.
È quel Tesoro che permette a Takashi Nagai di stare di fronte alla tragedia dell’atomica con uno sguardo carico di invincibile speranza e di testimoniarla fino alla morte (1951) ai suoi concittadini prostrati sotto il peso della devastazione atomica. Negli anni diventa punto di riferimento per la rinascita spirituale e materiale di Nagasaki – la città giapponese che più di ogni altra si era aperta al cristianesimo, tanto da venire chiamata “la Roma d’Oriente” – animando numerose iniziative per la ricostruzione e dando vita a un movimento per la pace fondato sul cambiamento della persona, che riteneva il vero antidoto al ripetersi di simili tragedie. Perché è dal cuore dell’uomo che nasce la guerra, e solo a partire da un cambiamento del cuore si può diventare costruttori di pace.
Quando le residue forze lo stanno abbandonando, Takashi Nagai – per il quale è stata avviata la causa di beatificazione – si ritira a Urakami tra le macerie del quartiere distrutto, insieme ai due figlioletti vive nel Nyokodo (“il luogo dell’amore a se stessi”), una minuscola capanna dove trascorre le giornate costretto a letto pregando e scrivendo, un luogo che diviene meta di un incessante pellegrinaggio di persone desiderose di incontrarlo e di imparare come si può coltivare la speranza di fronte a una vita ferita e alla morte imminente, trovando alimento in quel Tesoro che lui aveva scoperto nell’incontro con il cristianesimo. Perché quando tutto intorno crolla - come avvenne quel 9 agosto a Nagasaki - si può continuare a vivere solo restando attaccati a “Ciò che non muore mai”, come recita il titolo del suo libro più famoso.
In questi giorni che riportano alla memoria le tragedie di Hiroshima e Nagasaki e mentre torna a profilarsi all’orizzonte l’eco sinistra di un conflitto nucleare da più parti evocato anche se da tutti (a parole) esorcizzato, abbiamo bisogno di figure istituzionali che impugnino con decisione l’arma del dialogo, ma insieme a loro servono testimoni che come Takashi Nagai, “il santo di Urakami”, mostrino al mondo la potenza della rivoluzione inaugurata da Cristo e che ha portato un seme di novità nella storia degli uomini: il seme dell’amore.