Il «sultano» e il risiko da non accettare né subire
sabato 18 luglio 2020

Santa Sofia non è un edificio. Santa Sofia è un organismo vivente che ha accompagnato le vicissitudini di una delle più affascinanti città del mondo, separazione, nella contiguità simbolica e geografica, tra Occidente e Oriente. Santa Sofia si è modificata nel tempo, attraversata dagli impeti della storia dell’uomo, sempre controversa, sempre conflittuale. Per tutte queste ragioni Santa Sofia è da sempre e suo malgrado, anche trofeo. Trofeo per una umanità dalla logica predatoria, per cui ogni realtà esiste solo in funzione della propria appartenenza al potere di turno. Questa trovata di Erdogan, altamente prevedibile e perfino in ritardo rispetto ai tempi che ci si potevano aspettare, è l’ennesima occasione in cui si dovrebbe, da parte nostra, ribaltare le carte, affrancando una volta per tutte un luogo così potente sul piano estetico e storico da ogni valenza di bottino di guerra, da esibire per dimostrare una egemonia che ha valore solo se le si dà valore.

Tanta parte del mondo occidentale è complice di Erdogan. Perché nei commenti di questi giorni dimostra di pensarla allo stesso modo. Santa Sofia moschea? È uno scandalo, è il segno dell’avanzamento dell’islam, è una perdita di territorio, che finora, a mezzo millennio dalla vittoria ottomana, in una indefinita quanto presunta neutralità, poteva essere rivendicato da tutte le parti in gioco. Mentre il vero scandalo è un altro. Che l’Occidente, e in particolare l’Occidente cristiano, sia a tutt’oggi profondamente ancorato a logiche da crociata, da esercito, da clan, da tifoseria per l’una o l’altra parte. Non è su questo piano che si gioca la maturità storica di una cultura che dovrebbe essere ormai libera dall’artificio di identificare la potenza di una rivelazione con la quantità di bandierine appuntate sulla carta geografica. Cosa sia Erdogan dovremmo saperlo da tempo, e certo Santa Sofia, in termini di gravità, è l’ultima delle dimostrazioni di una autocrazia che non guarda in faccia a nessuno, usando l’islam in maniera pretestuosa per consolidare un dominio ottenuto anche con la forza del fanatismo, e, bisogna ammetterlo, con i nervi d’acciaio di chi, sotto gli aerei che volevano ribaltarlo in quel luglio del 2016, non ha mollato di un millimetro, esortando i suoi sodali alla rivolta contro i rivoltosi.

Cosa possono le mollezze delle cancellerie europee, perlopiù ignave rispetto ai soprusi che sono anche storia recente, di fronte alla determinazioni di questo uomo ormai piuttosto avanzato nell’età ma con la energia di un leone? Lo scandalo per Santa Sofia è uno di quei balletti diplomatici e mediatici, il cui unico effetto è di consolidare la leggenda del 'sultano' (come lo chiamano i media in una ulteriore concessione alla sua epopea da conquistatore), che immagino sorridente di fronte a questa agitazione isterica, un po’ ipocrita, che sottende un comportamento sostanzialmente connivente e omissivo. Santa Sofia una possibilità ce la offre. Far sì che l’operazione 'di nuovo moschea' diventi giudice feroce e inappellabile del suo stesso ideatore e della arretratezza della sua visione. Testimoniando una cultura che ha superato le logiche primordiali della imposizione di una verità attraverso la moltiplicazione delle bandierine del risiko, con le sue armate e i suoi territori. Testimoniando una cultura in cui la valenza simbolica anche di un solo uomo che vive la propria identità con libertà e solidarietà può valere mille 'conquiste' di Santa Sofia, il cui portato di verità svanisce proporzionalmente al valore pragmatico di che le viene attribuito. Testimoniando una cultura che non si disperde in mille rivoli isterici di lamentazioni inutili e dannose, incapaci di spostare di un solo millimetro la realtà delle cose.

Possiamo provare dolore, ma non abbiamo alcun timore di Santa Sofia che ridiventa moschea, perché al primo posto abbiamo il rispetto per l’uomo, il rispetto per la verità che non ha bisogno di fortezza, perché è fortezza in se stessa, amplificata non dalla pomposità, dal prestigio, dalla ricchezza dei luoghi o dalla forza degli eserciti, quali essi siano, ma dalla sua stessa essenza. Presente, inalienabile e sostanzialmente indifferente ai miserabili autocrati della terra che con tutti i loro disastri non fanno altro che testimoniare la propria inesorabile e fatale transitorietà, che noi possiamo contribuire a rivelare, purché riusciamo a essere – ed è tutto da dimostrare – realmente differenti.

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