I risultati elettorali in Italia più che altrove i problemi veri non li risolvono quasi mai (e, comunque, non del tutto), piuttosto li assegnano. Gli esiti delle elezioni regionali d’inverno 2020 lo ribadiscono. Inviano, sia chiaro, anche indicazioni dirette e segnali espliciti e non esattamente irrilevanti.
Dall’Emilia Romagna arriva la conferma che un centrosinistra allargato (dal basso) e ri-motivato può reggere alla sfida nazional-sovranista del destra-centro salviniano che aveva fatto della conquista di Bologna l’altro nome della riconquista di Roma. Dalla Calabria, invece, giunge la notizia che esiste e sa vincere – persino per distacco – anche un centrodestra a trazione moderata, che torna plurale nella composizione e nel voto dei cittadini. Le due conclusioni sono interessanti e per certi versi sorprendenti, visti trend recenti e narrativa mediatica prevalente. E piacciono a molti, in diversi partiti e schieramenti, anche se ovviamente non piacciono a Matteo Salvini che, al termine di una campagna elettorale ventre-a-terra e dito puntato su smartphone e citofoni, riesce ad avanzare perdendo posizioni, cioè mancando i grandi obiettivi proclamati: conquista dello storico bastione della «sinistra di governo», affermazione della Lega come primo partito in Calabria, dove è invece il terzo, sotto a Pd e Forza Italia e inseguito a un incollatura da Fdi.
Ma soprattutto, come si diceva, i risultati del 26 gennaio aprono questioni nuove e ne riaprono di accantonate. E questo succede a destra come a sinistra, e in special modo nella terra di mezzo di un Movimento 5 Stelle che ha ancora numeri enormi in Parlamento, ma sperimenta una vertiginosa crisi di consenso tra i cittadini. E succede, inevitabilmente, al Governo giallo-rosso. L’esecutivo è un po’ più saldo perché il Pd – un cardine decisivo – è meno debole e oltre a riunire in diverso modo i fratelli separati del centrosinistra, coalizza "civicamente" diverse energie locali e gode del "soccorso" gentile, eterogeneo ed efficace delle Sardine. Eppure il Governo resta fragile, perché il M5s – il cardine più importante – deve decidere proprio ora proprio qui, nelle poche settimane che conducono agli Stati Generali, non semplicemente una leadership, ma il ruolo che intende svolgere nel tempo ri-bipolare che sembra annunciarsi.
Un nuovo bipolarismo non può nascere per sola convenienza, e non è facile concludere se in giro ci sia abbastanza convinzione. A destra, nonostante tutto, sembra essercene più che a sinistra, dove pure c’è l’occasione di sviluppare concrete politiche di governo (famiglia, imprese, welfare, inclusione, sicurezza) per convincere elettori e partner, ma è un fatto che entrambi i campi sono da pacificare e riorganizzare: scissioni e giochi di prestigio, veleni e reciproci risentimenti hanno guastato rapporti e intorbidato prospettive. Per i 5Stelle, poi, a prima vista questo pare quasi un problema lunare, che forse si è posto davvero – e sin dalla scorsa estate – soltanto il garante non (troppo) guidante Beppe Grillo. Risolvendolo, nel senso che ha portato alla nascita del Conte Secondo. Per di più a un nuovo bipolarismo, allo stato delle cose, mancano i mezzi.
Nel senso delle regole elettorali. Ovvero, queste ultime ci sono a livello locale, come eredità delle stagioni precedenti: abbiamo un’ottima legge (a doppio turno eventuale) per i Comuni e quasi altrettanto buone leggi (a turno unico) per le Regioni. Ma per il Parlamento, e quindi per il Governo, la musica è altra. I fallimenti, sanciti da ben due referendum costituzionali, dei tentativi di Silvio Berlusconi e di Matteo Renzi di consolidare e coronare la stagione maggioritaria e bipolare hanno riportato l’Italia della politica dentro a una stagione neo-proporzionale. E le intenzioni di riforma delle regole, sono in linea con questa realtà. Il problema è sul tavolo. Sperimenteremo un neo-bipolarismo proporzionale?