La Repubblica italiana «tutela il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore», riconoscendoli come «obiettivi prioritari del Piano sanitario nazionale». Non è noto come meriterebbe, ma nove anni fa l’Italia si è dotata con voto pressoché unanime del Parlamento della legge 38 datata 15 marzo 2010, provvedimento di assoluta avanguardia, riconosciuto come modello in tutto il mondo, che con queste parole inequivoche – tratte dagli articoli 1 e 3 – impegna le istituzioni a garantire alle persone nelle condizioni di maggiore sofferenza e di terminalità un percorso di protezione, accompagnamento e sollievo quando il cammino della vita si fa più duro e angoscioso per la malattia e per il suo probabile esito finale.
I protagonisti lo ricordano come uno dei (purtroppo rari) momenti nei quali i rappresentanti degli italiani si ritrovarono oltre le consuete divisioni su un principio riconosciuto come fondativo e che la legge definisce come «tutela e promozione della qualità della vita fino al suo termine», obiettivo che va onorato e non solo declamato. Per questo nella stessa legge 38 si volle incidere a chiare lettere che «le strutture sanitarie che erogano cure palliative e terapia del dolore assicurano un programma di cura individuale per il malato e per la sua famiglia» garantendo la «tutela della dignità e dell’autonomia del malato, senza alcuna discriminazione», oltre a un «adeguato sostegno sanitario e socio-assistenziale della persona malata e della famiglia».
L’ordinamento italiano è zeppo di buone intenzioni, ma in questo caso si deve riconoscere che era così diffusamente avvertita la necessità di poter contare su «disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore» – titolo della legge per esteso – che alle dichiarazioni sono seguiti anche buoni fatti. Non ovunque, non sempre in modo coerente, ma è un fatto che la legge per una volta ha dato forma e dignità pubblica a una sensibilità già radicata tra la gente – medici, malati, famiglie –, che alla figura del samaritano guarda non come a un modello lontano ma come a uno "di casa". Per vocazione antica agli italiani viene naturale prendersi a cuore le sorti del prossimo, aprirsi alla sua sofferenza per prodigarsi efficacemente a portarne il peso, con un sovrabbondare di generosità e affetto oltre le stesse aspettative di chi giaceva «mezzo morto» sulla sua personalissima via di Gerico.
Ecco perché si avverte la fitta di un’urgenza, la chiamata a far subito ciò che ancora occorre, quando della legge 38 si viene a sapere che sta andando bene, certo, e per fortuna che c’è, ma hospice, posti letto, assistenza domiciliare, prestazioni sanitarie sono ancora insufficienti rispetto a esigenze che si vanno acutizzando per l’età media in aumento, la cronicità delle malattie, le situazioni cliniche sempre più complesse e delicate per effetto di terapie con le quali si evita la morte una volta certa ma non si risparmia la salita del vivere, non tutta, forse non quando occorre.
La relazione al Parlamento sulla attuazione della nostra preziosa legge-modello, resa pubblica l’altroieri dal Ministero della Salute, ritrae una situazione «con forti disomogeneità a livello regionale e locale» con un «lento e progressivo miglioramento della qualità delle cure» ma anche varie «criticità», come la constatazione che «prevalga ancora in Italia la mortalità in ospedale a testimonianza dell’insufficiente sviluppo delle alternative offerte dalle reti locali di cure palliative» specie se «domiciliari». La priorità dunque - scrive il Ministero - è «fornire risposte nuove e adeguate» a una situazione che si fa sempre più complessa e onerosa, con punte di vera drammaticità.
Ne vale certamente la pena, perché l’esperienza degli hospice è sempre la stessa: dove sono accessibili a tutti cure palliative e terapia del dolore di qualità, nell’intero spettro delle loro possibili applicazioni, si attiva l’antidoto umano allo sfinimento e alla disperazione. E nessuno chiede di abbreviare la vita. Per questo suonano stonate le dichiarazioni del ministro della Salute Giulia Grillo che dopo aver preso atto delle esigenze dettate dal confronto tra il dettato di legge e la situazione nel Paese non ha trovato niente di meglio che far sapere che per lei «la legge sull’eutanasia è assolutamente prioritaria per questo Paese».
Parole non solo agli antipodi di quel che la realtà mostra come realmente necessario – e non voler vedere la realtà porta sempre a decisioni improvvide, se non peggio – ma che dette dal ministro della Salute, di qualunque colore sia la sua casacca, mettono i brividi. Mentre si attende di capire come la pensi sul punto l’alleato leghista di governo – sempre reattivo su quasi tutto lo scibile politico, e invece silente sulla prospettiva di vedere tradotta in legge l’eutanasia – si prende a pretesto la richiesta della Corte costituzionale di elaborare una disciplina dei casi assolutamente estremi per far credere che si possa inoculare in un corpo solidale come quello del nostro Paese il veleno della 'morte a comando'.
Ma se non c’è reazione critica e argomentata, è questo che potrebbe accadere. Davanti a dati che esigono la ferma determinazione di colmare i buchi in una rete decisiva per milioni di cittadini in condizioni di particolare vulnerabilità, infatti, la massima autorità sanitaria della Repubblica dice che il problema è un altro, e che la soluzione è mettere la vita sullo stesso piano della morte, ognuno decida, lo Stato rimane neutrale, indifferente: di qua dal letto il medico per aiutare a vivere, dall’altra parte lo specialista per far morire. Un’immagine spaventosa e disumana, sinistramente ideologica e cupamente totalitaria, da Stato etico che si dimette dal suo dovere costituzionale di «tutela della salute».
Non si può pensare che il ministro della Salute ci creda davvero, ma se ci crede – come ora pare – deve anche sapere che non sarà facile convincere gli italiani che è l’eutanasia, oggi, a essere «assolutamente prioritaria». I problemi veri della gente vera, e l’anima di questo Paese, dicono l’esatto contrario. Si ascolti, finalmente.