Il Sipri, l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace, con sede a Stoccolma, ha pubblicato i nuovi dati in merito alla performance dell’industria globale nel settore degli armamenti e in particolare delle cento imprese più grandi al mondo. Le "top-100" delle armi nel 2016 hanno dichiarato vendite per un totale di 374,8 miliardi di dollari. In termini costanti si tratta di un aumento dell’1,9% rispetto al 2015. A fare la parte del leone sono le imprese statunitensi, che di questa cifra coprono circa 217,2 miliardi di dollari.
Due gruppi italiani, pur non vedendo crescere le proprie vendite, rientrano in questa classifica: il gruppo Leonardo, campione nazionale italiano di proprietà pubblica, si piazza al nono posto, mentre Fincantieri si attesta al 54esimo. L’aspetto interessante della ricerca Sipri sta nel fatto che le grandi imprese hanno ricominciato a crescere in termini relativi rispetto a quelle di minori dimensioni. Un andamento in netta discontinuità rispetto agli ultimi anni: tra il 2011 e il 2015 le vendite delle prime cento imprese erano diminuite in media del 3% all’anno.
Le spiegazioni di questa inversione di tendenza sono sostanzialmente due. In primo luogo, nel momento in cui la guerra diviene sempre più high-tech per l’utilizzo di droni e altri dispositivi ad alto contenuto tecnologico, è chiaro che siano le aziende maggiori ad avere a disposizione tali ordigni per la cui produzione sono state impiegate ingenti risorse in ricerca e sviluppo. In buona sostanza, la guerra tecnologica del futuro, combattuta con droni e robot, sarà sempre più un affare di pochi. Unitamente al fattore tecnologico vi è poi una novità di natura politica che tenderà a enfatizzarsi nell’era di "The Donald". La politica spregiudicata sul fronte della difesa e delle esportazioni militari dell’amministrazione Trump alimenteranno una discontinuità nel mercato spingendo ancora di più le grandi imprese americane del comparto militare.
Una conferma importante del fattore "The Donald" si trova nella relazione finanziaria del gruppo Leonardo, in cui si dice esplicitamente che «la nuova amministrazione Trump e la maggioranza raggiunta dai repubblicani al Congresso generano aspettative sulla crescita del bilancio della difesa degli Stati Uniti, con effetti attesi anche sugli Stati europei…».
In breve, ’The Donald’ è considerato e già si sta dimostrando il miglior amico dell’industria militare di tutto il mondo. Se il presidente americano in carica rappresenta la discontinuità più recente, dai dati del Sipri si evince in maniera chiara che nel lungo periodo un ruolo decisivo è stato giocato invece dalle decisioni che l’amministrazione di George W. Bush prese all’indomani dell’11 settembre 2001.A partire dal 2002, infatti, le vendite del gruppo delle 100 maggiori imprese di armamenti è aumentato di circa il 38% in termini reali. L’Italia in questo contesto mantiene in maniera silente la sua solidissima ambiguità. I cittadini-contribuenti italiani attraverso il gruppo Leonardo, già Finmeccanica, e il gruppo Fincantieri, sono di fatto tra i principali venditori di armamenti in tutto il mondo. Tra il 2002 e il 2016 le vendite in termini reali di Leonardo-Finmeccanica sono aumentate del 40,4% mentre per Fincantieri nello stesso periodo l’aumento è stato del 54,3%.
Nel nostro Paese, tuttavia, negli ultimi anni non sembra vi sia stata alcuna discontinuità in merito all’industria militare mentre l’impressione è che la nostra classe dirigente in maniera bipartisan abbia favorito il rafforzamento dei nostri campioni nazionali nel mercato globale degli armamenti. Viviamo in una campagna elettorale permanente eppure non si è mai udita una sola parola in merito alla nostra industria militare. In particolare sembra destare una preoccupazione assolutamente minoritaria il fatto che negli ultimi anni Leonardo-Finmeccanica e Fincantieri siano divenuti fornitori di governi mediorientali quali Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar. Questi infatti, come anche 'Avvenire' scrive e documenta da tempo, sono coinvolti in una corsa agli armamenti a livello regionale e, a vario titolo, nei sanguinosi conflitti in Yemen e Siria che hanno generato profonde crisi umanitarie e un gran numero di rifugiati che bussa alle porte dell’Europa. L’augurio è che nella futura campagna elettorale i leader politici decidano di affrontare in maniera seria e coraggiosa questo nodo, per troppi anni trascurato e ignorato, a dispetto del fatto che esso attiene ai grandi temi della guerra e della pace e quindi alla nostra vita.