Il primo appuntamento con le urne di questa lunga stagione elettorale arriva in sordina. Ci ha pensato Donald Trump a tenere i fari puntati su di sé, con l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, con la proposta di un piano di pace per il Medio Oriente (sostanzialmente già fallito) e con la partecipazione inattesa alla Marcia per la vita. Ma i democratici hanno fatto la loro parte. Il processo d’impeachment intentato contro il presidente Usa si è rivelato, nella migliore delle ipotesi, un buco nell’acqua che ha distolto l’attenzione dai candidati del partito alle primarie, nella peggiore, un disastroso autogol che ha aumentato la motivazione dei sostenitori di Trump a votare per lui.
Quando, domani, gli abitanti dell’Iowa iscritti al Partito democratico attraverseranno strade innevate con i loro pick-up per riunirsi in palestre e centri comunitari per esprimere la loro opinione, molti nel resto del Paese si renderanno conto per la prima volta che il voto per la scelta dello sfidante dell’inquilino della Casa Bianca è già cominciato. Il rischio è che tutto il circo che il partito dell’Asinello e la sua dozzina di candidati porteranno in giro per i 50 Stati di qui al 16 giugno rimanga un carosello di provincia rispetto allo 'show' del Commander in chief. La ragione principale è che Trump ha in cassaforte molti più soldi di tutti gli sfidanti dell’opposizione. Più di 100 milioni per l’esattezza.
E, soprattutto, non ha sfidanti. Per Donald J. Trump, la campagna elettorale per il voto generale di novembre è già cominciata. Può permettersi di concentrare i suoi attacchi e i suoi spot pubblicitari contro i rivali che emergeranno di volta in volta vincitori dai contesti statali, e arriverà all’estate con i forzieri pieni. I democratici, al contrario, stanno per imbarcarsi in un’estenuante lotta intestina fra le varie anime del partito che ha il potenziale di dissanguare economicamente i singoli candidati e di costringerli a mettere in evidenza le debolezze gli uni degli altri - a beneficio dell’avversario comune che solo uno di loro si troverà ad affrontare. Trump ha anche l’enorme vantaggio di essere il presidente uscente, che nella storia statunitense ha da sempre forti probabilità di essere confermato nell’incarico.
E può contare su un’economia forte (sebbene profondamente ineguale nella distribuzione delle ricchezze) e su una disoccupazione ai minimi storici (che nasconde però ampie sacche di sott’occupazione). Questo non significa che i democratici non abbiano alcuna possibilità di strappargli la Casa Bianca. Ma dovranno usare i mesi a venire per presentare un messaggio coerente che convinca a tornare all’ovile parte della classe lavoratrice che li ha abbandonati per votare per Trump. Per ora, la corsa all’interno della 'sinistra' appare ancora aperta. Il primato iniziale dell’ex vicepresidente Joe Biden è infatti meno solido del previsto. La rimonta del senatore autodefinitosi 'socialista' Bernie Sanders, che lo tallona da vicino, preoccupa i vertici del partito, che temono sia troppo radicale per conquistare gli elettori indecisi e quelli delle cerchie residenziali dei centri urbani, attraverso il cui consenso passa la strada per la Casa Bianca. Resta poi l’incognita Michael Bloomberg.
Dopo essere stato liquidato dagli osservatori come troppo poco conosciuto a livello nazionale per avere una possibilità di ottenere la nomination, l’ex sindaco di New York ha dimostrato quanto conti il denaro nella politica americana. A suon di milioni in annunci elettorali, Bloomberg ha superato la senatrice Elizabeth Warren, che non è riuscita a convincere gli americani di poter introdurre una sanità pubblica gratuita, se eletta. Bloomberg sarà il solo candidato democratico ad aver speso quasi 6 milioni per comprarsi uno spot durante la finale di football americano, che si gioca questa sera. L’unico altro politico ad aver investito nel Super Bowl, che viene seguito da oltre 100 milioni di americani? Facile, Donald Trump.