Le ormai imminenti e controverse elezioni negli Usa, precedute da umilianti e volgari dibattiti tra i candidati, dal dilagare di fake news, da accuse tanto pesanti quanto di difficile verificabilità (come quelle di evasione fiscale) e dalla gestione leggera e irresponsabile della pandemia di Covid-19 inducono molti commentatori a prevedere scenari inquietanti sul futuro della democrazia statunitense e quindi, in concreto, sul futuro dello stesso modello democratico a livello planetario. Coloro stessi che più di altri potrebbero aiutarci ad aprire gli occhi e a farci capire dove stiamo andando (o precipitando), cioè gli studiosi di scienza della politica (e, per estensione, anche quelli di filosofia della politica), appaiono smarriti, incapaci di elaborare previsioni consistenti. Il fatto è che la loro categoria è lacerata.
I politologi possono infatti essere raggruppati in due categorie contrapposte: quella di chi identifica il tema della politica con il tema del potere (come lo si conquista, lo si difende, lo si dilata) e quella invece di coloro che ritengono che il cuore vada ricondotto al principio del bene comune (come lo si promuove). I primi, in genere, adottano come loro stella polare il realismo e tanto se ne lasciano affascinare che arrivano rapidamente e cinicamente a ironizzare sui diritti umani o sul pacifismo, quando, a loro avviso, le dinamiche della storia si muovano in direzione opposta. I teorici del bene comune pensano invece che non sia autentica politica quella che non contribuisca a costruire il bene di tutta una comunità, senza escludere nessuno dei suoi membri: il paradigma che li ispira è valoriale ed anche quando sono costretti a riconoscere che i valori possono essere deformati, smarriti o semplicemente equivocati, continuano a battersi a loro favore, perché dal loro punto di vista la logica dei valori, coincidendo con la logica del bene, può ammettere sì contraddizioni, ma non sconfitte (come attesterebbero i martiri, che possono essere uccisi a seguito della testimonianza in favore dei propri valori, ma che da questa prova escono sempre, paradossalmente, vincitori).
Le discussioni accanite in tema di crisi della democrazia, che stanno non solo da mesi, ma ormai da anni, occupando il palcoscenico (a livello alto) della saggistica e (a livello ben più basso) dei confronti elettorali molto potrebbero giovarsi della distinzione che abbiamo appena fatto. Apparentemente tali discussioni sembrerebbero convergere, nel ribadire il primato del modello democratico e la necessità di promuoverlo e implementarlo, aiutandolo a superare le contraddizioni che secondo molti analisti lo starebbero soffocando.
Per i realisti i sistemi democratici si sarebbero non idealmente, ma fattualmente dimostrati, pur tra tante eccezioni, quelli migliori per lo sviluppo dell’economia, per la promozione della pace, per la tutela delle minoranze e dei loro valori culturali, primi tra tutti quelli religiosi e linguistici: abbandonarlo o lasciarlo deperire implicherebbe spalancare la porta a crisi sociali e strutturali ad altissimo livello di rischio. Invece, per i teorici del bene comune, il primato valoriale della democrazia dipenderebbe piuttosto dal fatto che il suo radicamento personalista e il suo costante riferimento alla dignità e all’eguaglianza di tutti gli esseri umani costituirebbero l’arma migliore contro ogni forma di discriminazione, cioè contro quella che è la radice di ogni conflittualità personale e sociale.
È evidente che i realisti assumono nei confronti della democrazia un atteggiamento freddo, intellettualmente lucidissimo, ma che non produce coesione sociale; mentre i teorici del bene comune sono convinti che il loro modello sociale sia risolutivo, ma il più delle volte non riescono ad argomentarlo bene e quindi a renderlo credibile ed emotivamente condiviso. Il risultato è che il riferimento alla democrazia, nel dibattito attuale, anche se sembra proposto proprio da tutti, divide più che unire e nel dividere corrode l’unico vero paradigma politico che occupi oggi l’immaginario collettivo.
Proporre vie d’uscita da una simile intricatissima situazione è arduo. Ma su un punto bisogna insistere: se non si accede all’idea che la modernità ha svuotato di senso tutti i paradigmi politici elaborati nel Novecento, tranne quello democratico, non si riuscirà mai a pacificare il mondo contemporaneo e a risanarlo dalle sue contraddizioni sociali, economiche ed ecologiche. Per questo la battaglia per l’identificazione di un adeguato concetto di democrazia per l’uomo di oggi è davvero una questione epocale. Anche se questo nodo essenziale della contemporaneità, quanto più viene discusso, tanto meno sembra essere percepito nella sua immensa rilevanza.