Un invito. Essenziale, anche per quest’anno. Quello di vivere «non nei fasti dell’apparenza, ma nella semplicità della vita, non nel potere, ma in una piccolezza che sorprende». Un invito che equivale a «vivere da figli» in uno sguardo che liberi dall’«orfanezza» e renda «nostalgiosi», cioè con quella «santa nostalgia di Dio» che «ci tira fuori dai nostri recinti deterministici, quelli che ci inducono a pensare che nulla può cambiare» e «ci permette di tenere gli occhi aperti davanti a tutti i tentativi di ridurre e di impoverire la vita». Un invito ancora a vivere da figli che non si lascino «anestetizzare il cuore», ma con quella «memoria credente che si ribella di fronte a tanti profeti di sventura». Non è solo l’ennesimo richiamo del Papa condito di neologismi anche sorprendenti: è la realtà a cui sempre si è chiamati a vivere come cristiani. È proprio sul filo di ciò che significa «vivere da figli» che si sono intessute le omelie con le quali Francesco ha voluto chiudere l’anno vecchio e aprire il nuovo. Vale la pena farne tesoro, in questa domenica che chiude il tempo di Natale.
«I pastori scoprono semplicemente che "un bambino è nato per noi" e comprendono che tutta questa gloria, tutta questa gioia, tutta questa luce si concentrano in un punto solo, in quel segno che l’angelo ha loro indicato – ha detto il Papa nella notte di Natale – e questo è il segno di sempre per trovare Gesù. Non solo allora, ma anche oggi, e per incontrarlo bisogna andare lì, dove Egli sta». Bisogna chinarsi, abbassarsi, farsi piccoli, «lasciare le illusioni dell’effimero per andare all’essenziale, rinunciare alle nostre insaziabili pretese, abbandonare l’insoddisfazione perenne e la tristezza per qualche cosa che sempre ci mancherà». Nell’omelia del Te Deum aveva ripreso le parole di san Paolo per dire in modo breve e conciso «il progetto che Dio ha per noi: che viviamo come figli». «Tutta la storia della salvezza trova eco qui: colui che non era soggetto alla legge decise, per amore, di perdere ogni tipo di privilegio (privus legis) ed entrare attraverso il luogo meno atteso per liberare noi che, sì, eravamo sotto la legge». E ritorna con insistenza sul farsi piccoli perché «la novità è che Dio decise di farlo nella piccolezza e nella fragilità di un neonato; decise di avvicinarsi personalmente e nella sua carne abbracciare la nostra carne, nella sua debolezza abbracciare la nostra debolezza, nella sua piccolezza coprire la nostra. In Cristo, Dio – dice Francesco – non si è mascherato da uomo, si è fatto uomo e ha condiviso in tutto la nostra condizione. Vicino a tutti quelli che nella loro carne portano il peso della lontananza e della solitudine, affinché il peccato, la vergogna, le ferite, lo sconforto, l’esclusione non abbiano l’ultima parola nella vita dei suoi figli».
Vivere da figli significa perciò vivere come il Figlio sotto lo sguardo di sua Madre. «Vogliamo incontrare il suo sguardo materno – sono parole del 1° gennaio –. Quello sguardo che ci libera dall’orfanezza; quello sguardo che ci ricorda che siamo fratelli: che io ti appartengo, che tu mi appartieni, che siamo della stessa carne. Quello sguardo che ci insegna che dobbiamo imparare a prenderci cura della vita nello stesso modo e con la stessa tenerezza con cui lei se n’è presa cura: seminando speranza, seminando appartenenza, seminando fraternità».
È perciò questa semplicità cristiana, che ci rende figli, la strada su cui andare. Quella di cui parlava anche von Balthasar come «un mistero», che «opera come tale». E «poiché essa è il riflesso in lui di una luce divina che gli si dona, un cristiano non la può produrre con un proprio sforzo e gestire come se ne fosse il padrone». Se così fosse – dice von Balthasar – andrebbe al di là della semplicità dell’evangelo, anzi, «diventerebbe stupido e come tale agirebbe, adeguandosi alla furbizia di questo mondo». È la furbizia che non ci rende figli ma schiavi degli «schemi mondani, dei piccoli idoli a cui rendiamo culto: il culto del potere, dell’apparenza e della superiorità. Idoli che promettono solo tristezza, schiavitù, paura». Come Erode, che non ha potuto adorare perché non ha voluto cambiare il suo sguardo, ha notato Francesco il giorno dell’Epifania. Perché «non ha voluto smettere di rendere culto a se stesso credendo che tutto cominciava e finiva con lui. Non ha potuto adorare perché il suo scopo era che adorassero lui. Nemmeno i sacerdoti hanno potuto adorare perché sapevano molto, conoscevano le profezie, ma non erano disposti né a camminare né a cambiare».
L’invito del Papa è così quello di andare come i magi che erano stanchi degli Erode del loro tempo, che sentirono nostalgia e non volevano più le solite cose. Andare verso una promessa di novità, una promessa di gratuità. Come i magi, che «poterono adorare perché ebbero il coraggio di camminare, e prostrandosi davanti al piccolo, prostrandosi davanti al povero, prostrandosi davanti all’indifeso, prostrandosi davanti all’insolito e sconosciuto Bambino di Betlemme, lì scoprirono la Gloria di Dio».