«O Germania, pallida madre! Come t’hanno ridotta i tuoi figli, che tu in mezzo ai popoli sia o derisione o spavento!», recita una delle più note poesie di Bertolt Brecht. Ma forse oggi è ancor più attuale una altrettanto celebrata dichiarazione del ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble: «L’idea che i tedeschi ambiscano a un ruolo speciale in Europa è un malinteso. Noi non vogliamo un’Europa tedesca. Noi non chiediamo agli altri di essere come noi». Una meravigliosa menzogna, quest’ultima, quanto veritieri – se pure riferiti ai bui anni del nazismo – erano i versi del drammaturgo di Augusta. Fatte le debite proporzioni, non è cambiato granché: la "Deutschland, bleiche Mutter" si riconferma la pallida madre di un’Europa sghemba, divisa, in lotta contro se stessa e in sempre più aperto dissidio con gli ideali dei suoi – forse ormai dimenticati – padri fondatori. Un’Europa a guida tedesca, ma talmente a geometria variabile da far fatica a tenerne aggiornate le giravolte.
Al summit di Ventotene – indetto nello scorso agosto dall’Italia per rilanciare lo spirito di sessant’anni fa – si delineava un triumvirato Berlino-Roma-Parigi, necessario (e quasi scontato), visto l’esito del referendum britannico che premiava la Brexit e di fatto escludeva il Regno Unito dalla gestione comunitaria. Ma quel terzetto di sorrisi spazzati dal libeccio sul ponte della "Garibaldi" ha avuto vita breve: poche settimane più tardi, a Bratislava, unaconferenza stampa franco-tedesca ha marcato con gelida evidenza l’assenza dell’Italia: si riproponeva l’antico e sperimentato, per quanto azzoppato, asse carolingio franco-tedesco, il nostro Paese non era stato invitato. Che si sia trattato di una "retaliation" (così, la stampa di mezzo mondo l’ha bollata: una rappresaglia) per quel vertice anti-austerity di sei Paesi mediterranei – Italia, Francia, Spagna, Grecia, Cipro e Malta – andato in scena una settimana prima? Ma non c’era anche la Francia fra i “congiurati”? E come mai Parigi viene perdonata e l’Italia no, tanto da lasciarla fuori dalla porta (a meno di clamorosi ripensamenti) dal summit indetto a Berlino per il 28 settembre dove di fronte alla platea degli industriali ci sarà sì un terzetto, ma composto da Germania, Francia e dal presidente della Commissione Europea Juncker? Non aveva forse l’Italia allestito un bilaterale a Maranello con Angela Merkel ospite d’onore? Non è forse il nostro Paese, ancora oggi, la seconda potenza industriale d’Europa?
Ma ridurre tutto ciò a una semplice questione campanilistica sarebbe futile e vano assieme. Gli sgarbi diplomatici, le piccole vendette politiche fanno parte del corredo inevitabile di quel club di nazioni chiamato Unione Europea, e poco in fondo ci colpiscono. Merkel stessa – in effetti ultimamente un po’ cerea e pallida dopo un paio di batoste elettorali nei Länder in cui la Cdu è stata sorpassata dalla Spd e soprattutto dove si è registrata l’impennata di consensi della destra xenofoba di Frauke Petry Alternative für Deutschland – va capita: l’accoglienza generosa per i profughi mediorientali dello scorso anno si è tramutata nel boomerang che rischia di farle perdere le elezioni federali dell’anno prossimo. Per non dire di François Hollande, forse il leader europeo con il più basso indice di gradimento di ogni tempo, avvinto come l’edera a una Germania che domina i mercati, detta le regole, impartisce i precetti di buon governo e in barba ad ogni vincolo comunitario sventola un surplus commerciale destinato ad allargare ulteriormente la frattura all’interno dell’Eurozona, così come a suo tempo anche la Francia (e immancabilmente la Germania stessa) aveva violato impunemente il tetto deficit/Pil.
Al di là dei minuetti fra un’asse e un triumvirato, si contendono il campo visioni e forze opposte e difficilmente conciliabili: saggia flessibilità contro asfissiante rigore, politiche migratorie di accoglienza contro i tanti, i troppi che alzano muri e ritracciano frontiere, l’Europa dei parametri contro quella dei cittadini. Può un’Unione Europea in simili condizioni riformare se stessa prima di deflagrare e disgregarsi, prigioniera del proprio utile particulare, dei propri egoismi, dei propri miopi calcoli di bottega? Forse. C’è chi punta ancora sui miracoli. Non costa niente, e talvolta succede. Noi continuiamo a constatare, e la storia degli ultimi vent’anni ce lo conferma, che senza il serio contributo di Roma il processo politico di integrazione europeo segna il passo e degenera in senso tecnocratico e neonazionalista sotto il sempre più urtante e pallido imperio dello sbilenco asse franco-tedesco. A noi italiani spetta certamente un gran lavoro, da fare con tenace e convincente continuità, ad altri di mettere in campo più realismo e meno supponenza.