venerdì 23 dicembre 2022
India, Pakistan, Afghanistan e Myanmar sono spesso ostili nei confronti di comunità religiose integrate. Corea del Nord, Laos, Cambogia e Vietnam contrastano ogni fede
I rapporti di Open Doors e Aiuto alla Chiesa che soffre evidenziano le criticità crescenti. Il caso della Cina

I rapporti di Open Doors e Aiuto alla Chiesa che soffre evidenziano le criticità crescenti. Il caso della Cina - Imagoeconomica

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Sarà un Natale illuminato dalla fede e dalla speranza, ma anche segnato dai timori e dalle restrizioni ai riti e ai festeggiamenti. Il Continente più vasto e popolato, l’Asia si distingue anche per l’ampiezza della discriminazione religiosa che l’attraversa, mostrando una varietà di fenomeni proporzionata alla sua popolazione multimiliardaria. L’organizzazione “Open Doors”, non da sola, indica come l’Asia stia scalando la classifica dei 50 Paesi dove i cristiani sono più perseguitati, con l’India ora tra i primi dieci e la Cina pure in peggioramento. I ricercatori dell’organizzazione calcolano che in Asia un cristiano su tre sperimenti una elevato livello di persecuzione per la propria fede.

Sicuramente e fenomeno in ascesa è l’uso politico della discriminazione religiosa che si rivolge anzitutto verso le minoranze di fede diversa ma che in molti casi ha per oggetto o vittima gruppi all’interno della stessa religione di maggioranza. Il primo caso è quello di India, Pakistan, Afghanistan, Myanmar, Sri Lanka, Brunei, Nepal, ostili nei confronti di comunità religiose integrate storicamente e che a volte solo pochi elementi distintivi separano dalla maggioranza.

Ma in India a fare le spese di una politica indirizzata secondo un’ideologia religiosa sono anche settori della società indù, come in Pakistan e Afghanistan lo sono della maggioranza musulmana sunnita sciiti, Ahmadi e altri. Con un ulteriore fenomeno, più rilevante in Afghanistan, per cui la maggioranza di etnia Pashtun da cui è emersa l’esperienza talebana, profondamente radicata nella realtà tribale e clanica locale a cui l’islam sunnita ha dato ulteriore spessore identitario, è profondamente ostile alla componente islamica “straniera”, perlopiù di matrice jihadista che dell’Afghanistan da tempo vorrebbe fare del Paese una testa di ponte per destabilizzare l’Asia meridionale.


L’autoritarismo statale, in misura diversa, dalle severe restrizioni del Vietnam al divieto quasi assoluto della Corea del Nord, limita – o persino soffoca – la possibilità di manifestare e praticare pubblicamente il proprio credo


L’Afghanistan rappresenta il peggiore dei casi, con i taleban che impongono alla società una rigida interpretazione della shari’a. Anche le Maldive adottano un islam estremamente rigoroso, rifiutando persino la cittadinanza ai non musulmani. In entrambi i Paesi è quasi impossibile stimare la popolazione cristiana, perché la fede islamica viene imposta come norma culturale. In India e nello Sri Lanka il nazionalismo religioso non è così totalizzante, ma genera continui attacchi contro i cristiani e le altre minoranze. I gruppi nazionalisti prendono di mira i cristiani e i loro luoghi di culto, con la complicità della polizia, che arresta i fedeli e interrompe le funzioni religiose. Le vittorie politiche dei partiti nazionalisti religiosi rafforzano e incoraggiano un clima in cui le minoranze sono considerate ‘diverse’”, si legge nel Rapporto sui cristiani oppressi per la loro fede 2020-2023 diffuso da Aiuto alla Chiesa che soffre.

Questa presunta estraneità, che prende a pretesto la fede, non è necessariamente indicata nelle carte costituzionali. È il caso del Pakistan, dove i principi fondamentali di uguaglianza e armonia sono stati chiaramente espressi dal “padre della patria” Muhammad Ali Jinnah. In questo Paese, tuttavia, segnala Acs, “i cristiani e gli appartenenti ad altre fedi non islamiche sono spesso vulnerabili all’interno della società e soggetti a maggiori rischi di aggressioni, arresti e violenze, che in alcune zone del Paese includono rapimenti e stupri”.

Diverso è il caso di quei Paesi, Repubblica popolare cinese, Corea del Nord, Laos, con qualche variante in Cambogia e Vietnam, dove a governare sono regimi di impronta marxista variamente adattata ma comunque ostili in principio a ogni fede strutturata perché potenzialmente critica verso la loro visione di società. Da qui l’applicazione pratica, repressiva e poco funzionale allo sviluppo umano e nazionale, di una visione discriminatoria a beneficio delle élite di governo.

Non nuovo anche altrove, “in misura diversa, dalle restrizioni più severe del Vietnam al divieto quasi assoluto della Corea del Nord, l’autoritarismo statale limita – o persino soffoca – la capacità dei credenti di praticare liberamente la propria religione”. Il fenomeno dell’“autoritarismo statale” che Aiuto alla Chiesa che soffre ha analizzato nel suo ultimo rapporto, sta diventando un fattore chiave di persecuzione nei confronti dei cristiani in Cina, Myanmar e Vietnam. “Nel peggiore dei casi la libertà di religione e di coscienza viene soffocata, come avviene in Corea del Nord”, in modo non dissimile da come “il nazionalismo religioso ha causato un aumento delle persecuzioni contro i cristiani in Afghanistan, India, Pakistan e altri Paesi”.


L’Afghanistan rappresenta il peggiore dei casi, con i taleban che adottano una rigida interpretazione della shari’a. Anche le Maldive impongono un islam estremamente rigoroso, rifiutando la cittadinanza ai non musulmani


Pechino, indica Acs, non allenta il proprio controllo sui cristiani come su altre espressioni religiose che non si adeguino pienamente alla linea ufficiale. “Non sorprende pertanto – prosegue il rapporto - che nell’analisi del Pew Research Center sulle restrizioni imposte dalle autorità alla religione il Paese abbia ottenuto il punteggio più alto di qualsiasi Stato nazionale, 17”. Esplicito, brutale, è l’atteggiamento del regime militare in Myanmar, dove – rileva Acs – dopo gli anni di apertura democratica guidata dalla Premio Nobel, Aung San Suu Kyi, sono tornati gli attacchi contro i cristiani, presenti soprattutto tra le minoranze etniche: “Nonostante la giunta abbia in precedenza promosso il buddhismo come norma sociale del Paese, ora prende di mira sia le pagode che le chiese, attaccando chiunque si opponga al colpo di Stato del 2021”.

Sulla strumentalizzazione politica della religione in Asia si è soffermata negli ultimi tempi anche un’organizzazione, quella dei Parlamentari dell’Asean per i Diritti umani, che da tempo cerca di indurre dall’interno le classi dirigenti a promuovere il rispetto dei diritti umani e delle libertà civili nei dieci Paesi membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico. Non a caso un suo recente rapporto (Restricting Diversity: Mapping Legislation on Freedom of  Religion or Belief in Southeast Asia) sottolinea come gli interessi di potere accolgano e sfruttino le istanze identitarie delle fedi maggioritarie per finalità di “ordine pubblico” e “armonia” che erodono i diritti fondamentali delle popolazioni

A fare le spese della crescente convergenza tra estremismo religioso e politica sono anche le minoranze religiose
. Ad esempio, i musulmani sciiti, la setta islamica degli Ahmadiya, i Testimoni di Geova, ma sulla difensiva sono anche le comunità cristiane, ancor più dove, in modo crescente, le leggi “antiblasfemia” sono utilizzate, più che per il fine proposto di tutelare la dignità della fede di maggioranza o di tutte le fedi, per criminalizzare gruppi religiosi critici verso i governi o istituzioni connesse con la religione dominante, pure in palese violazione del Diritto internazionale.

Appare evidente che il solo fattore religioso, sottoposto a spinte radicali e alla strumentalizzazione come elemento identitario non è più lo standard morale di riferimento per società un tempo pacifiche e tolleranti. Il focus deve ora passare ai diritti umani. “Ritengo che alla fine noi dobbiamo trovare una forte determinazione dei parlamentari di ogni schieramento, al governo come in Parlamento, e dobbiamo avere la stessa comprensione dei diritti umani, perché se qualcuno non parla il linguaggio dei diritti umani è parte del problema”, ha commentato l’accademico malaysiano Ahmad Farouk Musa, fondatore e direttore del Fronte per il Rinascimento islamico, movimento di riforma sociale indirizzato soprattutto ai giovani intellettuali.

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