Non solo coronavirus. Il tassista che dal centro di Shenzhen mi ha portato in aeroporto mi ha rivelato qualcosa di cui il mio naso aveva avuto sospetto. C’era qualcosa che mi era mancato nei giorni passati nella capitale della Huawei, nella città che venti anni fa non c’era e adesso ha venti milioni di abitanti cinesi. Cos’era? Impegnato com’ero a schivare sui marciapiedi i motorini e le bici elettriche che mi sfrecciavano accanto silenziosamente non me n’ero reso conto. Mi mancava l’odore familiare degli scappamenti delle auto. Quello che accompagna la mia vita quotidiana a Milano come a Roma o a Palermo. Sì perché, mi ha detto l’autista, l’auto che ci stava portando in aeroporto era completamente elettrica.
Come sono tutte le auto di Shenzhen, prodotte a Shenzhen dalla più grande industria automobilistica che si è impiantata in città. I cinesi hanno scelto di dare una svolta totale alla produzione di autoveicoli, scavalcando il mercato mondiale e lanciandosi nella produzione di massa di auto elettriche. Basta con le ipocrite ibride, con le convenzionali auto a motore a scoppio. Queste, del motore a scoppio non hanno più bisogno, ma solo di un’ora e mezza di ricarica la notte. Non dimentico quel tassista soddisfatto. E quel che mi ha detto, lui che viene dall’interno della Cina: a Shenzhen ora l’aria è migliore che là. È impressionante che un continente nel continente come quello cinese, che si era abituato ai miasmi di Pechino e di Shanghai, si stia mettendo su questa strada. Lo fa, ovviamente, come per il 5G, per superare le timidezze e le arretratezze dei concorrenti americani ed europei, ma gli effetti sono salubri per tutti. Da noi, invece, siamo ancora costretti a difenderci dai diesel, moderni quanto si vuole, ma praticamente dei mammut antidiluviani che ci rovinano la vita e la rovinano a quelli dei nostri figli e nipoti. Salvo, nei momenti peggiori, quando l’inquinamento urbano giunge al sopra di qualunque limite consentito lanciare urgenti misure. Si proibiscono i diesel per una settimana, si promette di riprendere le targhe alterne o di proibire le auto – addirittura! – per un giorno intero. Sembra che dal nostro strano medioevo non si riesca a uscire. I sindaci più coraggiosi riescono a pensare di proibire nel 2030 (il 2030!) il fumo nei luoghi all’aperto, sì ma nel frattempo la situazione di tutte le città italiane si sta aggravando in maniera paurosa.
Eppure basterebbe un po’ più di radicalità (scusate l’ossimoro), meno timidezza signori sindaci e signore amministrazioni, il che significa mettere fuori legge in città non solo i diesel, ma tutti i veicoli che inquinano con la sola presenza, come ad esempio i Suv. Non conosco un solo sindaco italiano che abbia proibito ai Suv di circolare in città. Non è possibile tollerare questo simbolo di prepotenza. Un Suv occupa lo spazio di 16 persone in piedi, di otto carrozzine con bambini, di 10 carrozzine di handicappati. C’è un inquinamento dello spazio, oltre che dell’aria. È possibile che l’Italia sia ancora il Paese in cui una radicale campagna anti-auto ingombranti e inquinanti non sia possibile per rispetto alla produzione che meno si è messa al corso con i tempi mondiali, cioè l’automobile prodotta per gli italiani da fabbriche italiane? Cosa dobbiamo aspettare perché finalmente si capisca che le città sono dei luoghi in cui ci si ammala irreparabilmente, quando basterebbe veramente poco per invertire la rotta? È vero che il traffico incide solo in parte, ma anche qui, se c’è traffico combinato con riscaldamenti domestici è possibile non si riesca a pianificare un cambiamento generale? A cosa servono le decisioni d’emergenza? I sindaci in Italia non hanno abbastanza poteri per pianificare un cambiamento radicale? Non so, a me pare che alcune cose si possano fare. Leoluca Orlando a Palermo contro tutti sta impiantando tram nel centro storico che lo connettano alla periferia. Virginia Raggi dice che, poveretta, ha ricevuto 900 autobus diesel dall’amministrazione capitolina precedente. È necessario proprio aspettare altri dieci anni? A Milano si potrebbe tentare una politica più radicale, no? C’è una popolazione più sensibile al cambiamento climatico e c’è una situazione geografica infelice: la Bassa, la mancanza di vento etc. Ma non basta come giustificazione. Se Milano vuole essere la prima città europea, deve dotarsi di un piano radicale che elimini tutti i danni dell’auto e che ne limiti il potere.
È possibilissimo, è fattibilissimo e non sarebbe così impopolare. Bisogna avere la capacità di pensare adesso a cambiare le cose prima che sia troppo tardi. E se la questione è che l’inquinamento viene dall’area metropolitana, anche lì interveniamo. Credo che la questione stia tutta nell’incapacità delle amministrazioni urbane in Italia di coinvolgere davvero i cittadini con una campagna mediatica sulla necessità assoluta di 'guarire' le città. Manca la comunicazione giusta, manca la capacità di mobilitare senza la quale qualunque decisione di un sindaco rimane bloccata dalla sua paura di essere impopolare. Credo che l’Italia debba ancora fare la sua rivoluzione ambientalista, che la sinistra di Zingaretti sia troppo impegnata a non sembrare destra per abbracciare finalmente i temi dell’allarme ambientale. Oggi la gente in generale sa sulla propria pelle molto di più di quanto sanno i sindaci e lo stesso ministro dell’Ambiente. O diamo ancora ragione al tesoriere del governo americano che vorrebbe mandare Greta alla Bocconi? No, per favore l’economia ha dimostrato di essere incapace di prevedere se stessa (leggersi l’articolo di David Graeber « Against economy » sul 'New York Review of Books' per capire come l’economia sia la scienza più incerta del nuovo millennio), figuriamoci i disastri ambientali! Nel frattempo mi rendo conto che basta poco, una settimana fuori dalle città italiane per diventare intolleranti, no, non è possibile accettare di respirare ancora gli scappamenti, è lo strano medioevo in cui siamo ancora immersi.