La sola descrizione tecnica di per sé è impressionante. Stiamo parlando di una batteria missilistica anti-aerea in grado di abbattere qualsiasi velivolo a 400 chilometri di distanza con la capacità di seguire e puntare fino a 100 bersagli contemporaneamente ed ingaggiarne ed abbatterne 32. Nome in codice, S-400. Per gli esperti del ramo, il più evoluto (e letale) sistema di difesa anti-aereo del mondo. A dotarsene, ora è ufficiale dopo settimane di indiscrezioni, sarà la Turchia, che per quattro di questi gioielli sborserà la somma di 2,5 miliardi di dollari.
Peccato che il sistema S-400 sia prodotto dal colosso russo della Difesa Almaz-Antey, società messa sotto sanzioni da parte di Stati Uniti e Unione Europea dopo che uno dei missili di sua produzione era stato utilizzato per abbattere il volo della Malaysian Airlines MH17 sui cieli dell’Ucraina il 17 luglio del 2014, uccidendo le 283 persone a bordo. E peccato che la Turchia faccia ancora parte della Nato e che i suoi sistemi di difesa dovrebbero essere integrati con quelli dell’Alleanza Atlantica più che con quelli russi. Ma della forma, a quanto si vede, il presidente Erdogan poco si cura.
E a chi si domanda – e tutte le cancellerie si pongono da tempo simile quesito – a che gioco stia giocando il padrepadrone della sempre meno trasparente democrazia turca, si può rispondere in un solo modo: Erdogan gioca la stessa partita di Vladimir Putin, una partita di potenza e di azzardo, senza riguardi per nessuno. Non è un caso che facciano affari insieme nonostante quell’aereo russo abbattuto sui cieli confinari della Turchia un paio d’anni fa. Il che non vieta al sultano di Ankara di voler ricucire al più presto i rapporti con l’Unione Europea dopo mesi di incomprensioni né di rimproverare l’Europa per l’“inadempienza contrattuale” circa i fondi pattuiti per il contenimento dei migranti siriani. In fondo, cosa saranno mai quelle migliaia di funzionari, poliziotti, insegnanti, docenti universitari in carcere, quel centinaio di giornalisti dietro le sbarre, quelle 173 testate chiuse dal governo dopo il fallito golpe, quegli oltre duemila giornalisti licenziati perché poco accomodanti con il regime? Il dubbio se mai è se assegnare questa volta il punto a favore di Putin oppure al suo nuovo e imbarazzante (per noi, per lo meno) alleato Recep Tayyp Erdogan. Perché tutto si può affermare tranne che per la Turchia Putin sia soltanto un partner d’affari.
Non a caso il 2017 si chiude con una spettacolare riedizione dell’imperialismo di Mosca, padrona e arbitro di una vasta zona del Medio Oriente, presente in forze – a dispetto dell’annunciato ritiro di truppe in Siria – sia sul terreno sia con il naviglio da guerra e l’aviazione su un arco di territorio che va dal Caspio fino al Mediterraneo (con le basi di Tartus e Latakia, dove oggi staziona una grande base aeronavale che ha riportato la Russia fra i grandi player della regione) passando per l’Iraq e la Siria grazie all’alleanza strategica con l’Iran e al suo braccio armato, gli hezbollah libanesi. Mancava solo l’entente cordiale con Ankara per completare un mosaico che ormai si spinge fino all’Egitto (un altro dei clientes ritornati nell’orbita di Mosca come ai tempi di Nasser) e alla Libia (che nel generale Haftar vede il più giudizioso fra i vassalli di Putin). In questo gioco pericoloso – qualcuno lo reputa una replica moderna e certamente più pericolosa di quel Great Game che per tutto l’Ottocento oppose la corona britannica a quella russa nella lunga partita per il controllo dell’Asia minore – sta ricavando un suo ruolo la Turchia di Erdogan, muovendosi con spregiudicatezza e non di rado con l’arma sottile del ricatto: la permanenza nella Nato (se pure con gli americani a sovranità limitata) in cambio della mano libera con i curdi, la ripresa dei negoziati con l’Unione Europea in cambio della tranquillità sulla frontiera meridionale. Sorretti da un innegabile consenso popolare, sia Putin (che si appresta nel marzo prossimo ad essere trionfalmente rieletto) sia Erdogan appaiono al momento senza significativi avversari.
Di fronte a entrambi si para un’alleanza occidentale e un’Europa ancora in cerca della propria bussola. Ed è su questo vuoto, su questi varchi che l’amministrazione Obama prima e le incertezze dell’Europa e del presidente Trump poi hanno consentito ai migliori giocatori di poker della zona di vincere fino a questo momento tutte le mani.