martedì 18 febbraio 2025
Suona per tanti aspetti quasi stonato affidare a un leader animato anch’egli da impeti neoimperialisti come Trump le speranze di una qualche forma di pace, ma tant’è
I leader europei riuniti a Parigi

I leader europei riuniti a Parigi - ANSA

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Il paradosso è che, dopo aver impiegato (sprecato?) quasi tre anni dallo scoppio del conflitto senza fare granché per ritagliarsi quel ruolo da mediatore nella guerra russa all’Ucraina che pure la storia poteva attribuirgli, l’Unione Europea e gli Stati membri ora rischiano concretamente di essere tagliati fuori dal tavolo delle trattative che l’amministrazione Trump sta tentando di avviare.

È una nemesi quella che si sta consumando in questi giorni e che ha visto ieri i principali leader continentali riunirsi a Parigi per un vertice che è un sussulto d’Europa ma al tempo stesso, essendo un’iniziativa voluta dal francese Macron (e per questo con più di qualche remora di Giorgia Meloni), è pure l’ennesimo schiaffo a una Unione Europea incompiuta, in questo conflitto collocata in un'eterna zona grigia non priva di ipocrisie.

E fa il paio con un’altra sensazione che aleggia in queste settimane, in parte del circuito mediatico: un imbarazzo, quasi un fastidio, dopo tre anni trascorsi a rispondere all’autocrate e oppressore Putin sostanzialmente solo alimentando – spesso dalle sicurezze dei nostri salotti – una guerra “per procura” fino all’ultimo ucraino, inviando quindi armi in serie (peraltro pure con qualche scrupolo “contabile”) e stando ben attenti a non parlare di truppe da schierare.

Senza considerare con forza e convinzione l’alternativa di una soluzione diplomatica che avesse la Ue come promotore indefesso. Un impaccio, dicevamo, per il fatto che ora qualcuno riprende a parlare esplicitamente di pace, almeno come obiettivo da perseguire. Una prospettiva che viene da alcuni già definita una «resa incondizionata» ancor prima che ci si avvicini davvero a quel tavolo e se ne conoscano i termini.

Gran parte di questa sensazione è dovuta al fatto che il motore disruptive (dirompente) di questo percorso sia Donald Trump. Anche del nuovo presidente Usa sono ben noti i potenziali pericoli: il rifiuto del multilateralismo, il solidarismo rinnegato, lo spirito isolazionista, la logica basata sulla “legge del più forte”, persino la certezza messa in discussione della Nato (da cui giustamente va tenuta fuori l’Ucraina): tutti principi ben lontani dalla nostra visione - ancora incompleta, però - di un’Europa unionista come àncora di benessere e di pace faticosamente conquistata dopo il Secondo dopoguerra.

Purtuttavia, oggi è lui il presidente della prima potenza mondiale. Ed è dunque quanto meno una notizia benaugurante che si impegni per iniziare un negoziato che metta fine alla guerra tra Mosca e Kiev dopo 36 lunghissimi mesi che hanno portato tragedie e lutti infiniti, assieme a oltre 300 miliardi finiti all’industria e al commercio degli armamenti, senza nessun altro passo avanti a vantaggio delle popolazioni.

A meno di voler considerare tale l’improvvisa decisione di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, di concedere flessibilità nei conti pubblici degli Stati membri sulla spesa per gli armamenti; una decisione (peraltro annunciata – va notato – senza alcun coinvolgimento preventivo del Parlamento Europeo) presa per le armi e rifiutata invece altre volte, in passato, quando governi la chiedevano per le esigenze materiali dei cittadini europei.

Certo, suona per tanti aspetti quasi stonato affidare a un leader animato anch’egli da impeti neoimperialisti come Trump le speranze di una qualche forma di pace, ma tant’è. Ed è al momento l’unica novità oggettiva. Non per questo si può dimenticare che, sin dall’inizio del conflitto, moltissime autorevoli personalità – a partire dal nostro Romano Prodi – hanno sempre sostenuto che tali speranze potessero poggiare solo su un accordo fra Stati Uniti e Cina con la Russia, rispettando ovviamente quanto più possibile le istanze del popolo ucraino e del suo presidente Zelensky, prime vittime di questo frangente storico; ma soprattutto che per avviare un percorso di pace fosse indispensabile tornare a parlare con Putin.

Ora che ci stiamo avvicinando a un faticoso abbozzo di dialogo, dopo tre anni in cui il “verbo Nato” sostenuto da Joe Biden predicava invece di evitare ogni contatto col Cremlino, si coglie un disagio in quanti sono rimasti innamorati e prigionieri delle loro tesi (vedi la famosa “controffensiva” dell’estate 2023 che doveva portare alla vittoria di Kiev e si rivelò invece un nulla di fatto cosparso solo di altre morti), senza guardare alla realtà dei fatti che ogni giorno può mutare e prendere forme diverse. Ripetiamo: non deve essere un dialogo fatto alle spalle degli ucraini, i quali devono avere la certezza di avere l’Europa con loro. Ma non deve nemmeno essere una guerra che continui sulla sola pelle degli ucraini. Sarà poi la storia, come sempre, a giudicare gli esiti finali.

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