La vita e la morte di Odoardo Focherini valgono e dicono infinitamente più di qualunque parola. E di ogni commozione. Abbiamo cercato di trasmetterlo ai nostri lettori, oggi ci proviamo ancora. Eppure, ieri, è stato bello sentire e vedere parole e commozioni mescolate nell’assolata Piazza dei Martiri di Carpi, davanti alla Chiesa madre di quella comunità che ancora si misura con le ferite aspre del terremoto, ma s’è riunita in festa per la beatificazione del figlio che mai ha perduto e, però, le fu strappato dall’
odium fidei nazifascista.La fede forte, il coraggio umano, la civile integrità, la tenerezza di sposo e di padre, l’amore senza ombre di Odoardo Focherini, proclamato giusto tra le nazioni e riconosciuto beato martire cristiano, ci riguardano tutti, ci incalzano, ci rincuorano. Eppure questo uomo appassionato di Gesù, dell’umanità e della giustizia quaggiù possibile riguarda, in un modo del tutto speciale, proprio noi che – nelle diverse forme in cui è, oggi, possibile – frequentiamo le pagine di giornale e di esse viviamo. Forse perché è il primo giornalista italiano a essere riconosciuto beato dalla Chiesa? Certo. Ma quando scrivo "noi" non mi riferisco solo ai giornalisti che tengono caro il loro essere cattolici, penso davvero a tutti quelli che fanno il nostro mestiere. Tutti, nessuno escluso, anche quelli che di un collega santo non sanno, loro, che pensare e forse che farsene.Odoardo Focherini è un esempio, limpido e potente. Di quelli che scomodano e mettono in crisi chi fa e pensa i giornali, ma li riempiono anche di allegria, perché sono la prova che non è affatto vero che cinismo, sentenziosità astratta e conformismo sono la misura o il compromesso inevitabile del giornalismo. Focherini amava così tanto il giornalismo che si fece (non è stato il primo e non sarà l’ultimo) anche amministratore dell’
Avvenire d’Italia perché quel giornale bolognese d’ispirazione cattolica – che assieme all’
Italia di Milano avrebbe poi generato il nostro Avvenire – fosse nelle condizioni di tenere il campo e di far sentire sempre la propria voce. Ma amava così tanto il suo giornale che, fianco a fianco con il direttore Raimondo Manzini, non accettò mai di tenere il campo e, dunque, di andare in edicola se questo avesse significato chinare schiena e testa sino a pubblicare notizie e commenti "politicamente corretti" secondo i potenti del momento, ma contrari alla verità e al bene.
L’Avvenire d’Italia di Manzini e Focherini, piuttosto che uscire con in pagina ciò che volevano gli occupanti nazisti e i loro alleati fascisti, non usciva proprio. Per questo, dopo la Liberazione, come l’
Italia e a differenza di tante altre testate illustri e meno illustri, poté tornare in edicola con il proprio nome. Questa è stata la testimonianza, la civilissima resistenza all’oscurità del male, alle sue minacce e alle sue fascinazioni, di veri giornalisti. E l’hanno data giornalisti cattolici.Ma c’è uno straordinario "di più" per noi che facciamo questo mestiere in un tempo che tende ad allontanare e a incattivire lo sguardo di chi scrive dalle persone e dalle realtà vere. Odoardo Focherini amava così tanto le ragioni cristiane e umane del suo impegno giornalistico "di prossimità" da non metterle mai tra parentesi. E il "pezzo" più bello della sua vita è quello che non ha potuto mettere in pagina. Lo ha scritto nei suoi stessi giorni e in quelli delle persone di un’altra fede e della stessa umanità che ha contribuito a salvare dalla follia di una discriminazione assassina. Un "pezzo" splendido, articolato da uno di noi che ha saputo chinarsi a tal punto, e con tale rispetto e senso della giustizia, sugli ebrei in fuga dai loro sterminatori da essere, infine, spezzato lui. Focherini non esitò a farlo, lo fece senz’armi, a mani nude. Da cristiano. Non c’era nient’altro da fare, perché non c’è nient’altro da fare di fronte alla disumanità, comunque essa si manifesti, comunque si vesta e si travesta. Anche se sembra che il futuro sia suo. Il futuro è l’amore, perciò è dell’uomo e, anzitutto, è di Dio. Beato Odoardo che ce l’ha insegnato, beati noi se sappiamo dirlo con le nostre vite, se non ci limitiamo solo a raccontarlo.