C’era una volta, in un quartiere di Buenos Aires, una povera donna un po’ matta. Andava in giro tutto il giorno pronunciando parole incomprensibili, ma non faceva male a nessuno. Le altre donne le davano qualcosa da mangiare. a sera questa donna, che si chiamava Angelina, tornava in una stanzetta in cui viveva da sola. In una grande metropoli, una figura analoga al “matto del villaggio” che c’è in tanti paesi: incomprensibile, solo con la sua follia, ma assolutamente innocuo.
Questa Angelina è rimasta indelebile nel ricordo di Jorge Mario Bergoglio, che allora aveva sette anni e giocava per i cortili. «Noi bambini – ha raccontato l’altra mattina a Santa Marta – la prendevamo in giro. Uno dei giochi che avevamo era: andiamo a cercare la Angiolina, per divertirci un po’». E sembra di vedere un nugolo di ragazzini che insegue la povera matta, la circonda, la scherza. E lei, che mentalmente è come una bambina, ha un po’ di paura, cerca di sottrarsi. Il piccolo gioco crudele è rimasto netto fra i ricordi di Francesco, che ha detto: «Ma quanta malvagità anche nei bambini! Prendersela con il più debole!».
Lo schietto commento ribalta un luogo comune cui siamo affezionati: che i bambini siano sempre e naturalmente buoni. Senza saperlo, siamo tutti un po’ rousseauiani, un po’ convinti che nasciamo buoni, e poi è il mondo che ci rende cattivi. Invece, il Papa si è posto la domanda radicale. «Cosa c’è dentro di noi, che ci porta a disprezzare, a maltrattare, a farci beffa dei più deboli? Si capisce, al limite, che uno se la prenda con uno che è più forte: può essere l’invidia che ti porta». Ma perché prendersela con «i più deboli? Cosa c’è dentro, che ci porta a comportarci così?».
E con altrettanta schiettezza si è risposto: «Credo che sia una delle tracce del peccato originale, perché questo – aggredire il debole – è stato l’ufficio di Satana, dall’inizio». Il male indicato col suo nome proprio, il male originario che ci tocca tutti, anche nell’età in cui amiamo crederci sempre e comunque innocenti. Curiosamente, a queste parole pochi media hanno dato gran risalto. Altre frasi del Papa fanno in un’ora il giro del mondo; questa, no. «E oggi – ha aggiunto Francesco – lo vediamo continuamente, nelle scuole, con il fenomeno del bullying : aggredire il debole, perché tu sei grasso o perché tu sei così o tu sei straniero o perché tu sei nero, per questo aggredire, aggredire. I bambini, i ragazzi».
Lo fanno anche i bambini. Anche i bambini sono capaci di male. Verità che taglia: i nostri figli noi tendiamo a proteggerli sempre, in ogni modo. Litigano, i genitori, con gli insegnanti troppo severi, difendono i ragazzi a spada tratta, se anche hanno vessato un compagno. “Sono soltanto bambini”, dicono, “sono cose di ragazzi”. No, ci ha ricordato Francesco, il principio del male è in noi, scelta possibile, fin dall’inizio. È l’oscura eredità di cui non vogliamo sapere niente, ombra antica e troppo negata. Il male c’è, ci sta dentro. Cova già nelle piccole cattiverie fra compagni, nelle sottili persecuzioni, nell’esclusione di “quello là” da tutti. Ha concluso, Francesco, esortando a chiedere a Dio «la grazia della compassione, quella è di Dio: Dio ha compassione di noi, patisce con noi e ci aiuta a camminare».
La grazia della compassione, il cum-patire, il saper soffrire assieme. Chinarsi sul più debole non per umiliarlo, ma per aiutarlo a andare avanti. Rallentando il passo per stargli accanto, parlando adagio, per farci capire. Bisogna insegnarlo ai bambini, fin da piccoli, a guardare agli “ultimi” come fratelli minori, da prendere per mano. E già in quel minimo gesto si contrasta l’ansia di potere e sopraffazione che ci abita silenziosamente, l’ubris aspra che è all’origine anche delle guerre planetarie, ma che abita come un seme in ciascun uomo che nasce. Seme che non vogliamo ricordare, né vedere. Ma vedere è necessario, per domandare la grazia della misericordia.