Lezioni e interrogazioni, distanze da garantire e programmi da rispettare. In tempi di pandemia la scuola è tutto questo, certamente, ma è anche molto di più. È il progetto che un Paese fa su di sé, è la sua immaginazione del futuro. Da come è strutturato e tutelato il sistema scolastico si capisce molto delle convinzioni e delle speranze collettive. Le società giovani – dal punto di vista culturale prima ancora che demografico – sono quelle nelle quali le aspettative restano più alte, e anzi crescono continuamente, assecondando un desiderio di esplorazione della realtà che assume i toni di una sfida gioiosa e ottimista.
Proprio perché si rivolge ai ragazzi e alle ragazze, la scuola deve parlare il loro stesso linguaggio, deve tenere il passo con una voglia di novità della quale l’innovazione tecnologica rappresenta l’elemento più visibile, senza per questo essere esclusivo. Una scuola senza ambizioni, al contrario, è il segnale di un Paese stanco, incline alla rassegnazione del 'così va il mondo', che è poi un altro modo per dire che così si è sempre fatto: perché darsi la pena di cambiare?
Tra marzo e aprile, quando l’Italia è stata sconquassata dalla tempesta del coronavirus, la scuola ha mostrato il suo volto migliore. Non senza accusare limiti e mostrare contraddizioni, lo sappiamo.
Ma quella era un’emergenza, si faceva quello che si poteva. E si è fatto molto, da parte di tutti. Spesso si è fatto molto bene. Da allora però sono trascorsi almeno sette mesi e l’imprevedibile è una categoria alla quale non è più consentito fare appello. Si sapeva che con l’autunno i casi di Covid-19 si sarebbero moltiplicati, si sapeva che le aule scolastiche e universitarie sarebbero stati luoghi da tenere sotto osservazione. Adesso, a poche settimane di distanza da una travagliata ripresa delle lezioni, in diverse Regioni – dalla Lombardia alla Puglia – ritorna la soluzione della didattica a distanza anche se al momento, dati alla mano, le scuole non sono affatto luoghi di diffusione del contagio. Il problema, si dice, è prima e dopo le ore passate a scuola. Ma tant’è. Si è partiti dalle superiori, al momento, ma con il motivato timore che a breve si proceda a cascata e di rimbalzo, fino a una sospensione delle attività estesa all’intero sistema, dalle primarie alle università.
Detto nel modo più semplice, non ce lo possiamo permettere. Non si tratta di istituire un dibattito retroattivo sull’utilità dei provvedimenti adottati nei mesi scorsi da amministrazioni centrali e locali, non si tratta di ragionare su come si sarebbero potuti impiegare altrimenti tempo e risorse. Questi giorni di ottobre sono di per sé uno spartiacque, una linea lungo la quale si decide, alla lettera, il destino di una generazione. Non ci sono pagelle da compilare, né liste di buoni e cattivi da stilare, ma solamente obiettivi sui quali accordarsi per poi salvaguardarli con fermezza.
L’importanza della scuola non si misura in metri statici o dinamici, ma nel valore sociale che la scuola stessa produce.
Chiudere le scuole (di nuovo, e per la seconda volta nel medesimo anno solare) espone il Paese al rischio di un ulteriore sfaldamento di quella rete di relazioni che la scuola contribuisce a garantire con una capillarità e una tenacia troppo spesso inavvertite.
Proprio perché è un progetto e non un programma, la scuola svolge un ruolo insostituibile di socializzazione e di concreta educazione alla cittadinanza. A trarne beneficio sono, in particolare, gli studenti e le studentesse che provengono dai contesti di maggior fragilità. Lo stesso divario digitale, del quale si è tornato a discutere di recente, è il segno di una disparità di condizioni che va molto al di là della strumentazione tecnologica.
Oltre al bisogno di conoscenze, agisce la necessità di mettere a confronto esperienze e tradizioni differenti, ed è urgente la ricerca di una visione comune. In tutto questo la scuola non può essere lasciata sola. Perché questo significherebbe un’altra serrata: abbandonare la scuola a sé stessa, scaricando sul personale, sugli insegnanti, sugli studenti e sulle famiglie il peso di responsabilità colpevolmente disattese. Non ce lo possiamo permettere, appunto. Non possiamo permettere che accada.