«Era un negozio corretto», ha detto ieri nell’aula del Consiglio regionale della Lombardia il presidente Attilio Fontana a proposito della vendita (poi diventata parziale donazione) alla Regione di camici prodotti dalla società di proprietà del cognato e per il 10% della moglie. Ed è probabile che non abbia torto, che cioè l’operazione in sé non avesse le caratteristiche per «turbare la libertà nel procedimento di scelta del contraente», come recita la prima accusa al titolare della Dama Spa. Né quelle poi, di una «frode in pubbliche forniture», per la quale ora è indagato anche il presidente Fontana. Sarà la magistratura a stabilirlo, ovviamente, ma gli elementi finora emersi fanno ritenere che il presidente non abbia personalmente commesso reati. E che dunque non debba – per questo – essere costretto a dimettersi.
Tuttavia, l’intera vicenda è stata mal gestita, in maniera assai poco trasparente, e un 'negozio' pure lecito non è detto che sia opportuno. Né tanto meno sembrano esserlo altri comportamenti tenuti dallo stesso presidente Fontana. Che lui per primo dovrebbe avere interesse a chiarire e sui quali sarebbe opportuna una profonda riflessione, non giudiziaria, ma tutta politica. In piena emergenza Covid, con un’estrema penuria di presìdi per il personale sanitario la partecipazione della Dama Spa alla produzione di camici per la Lombardia poteva avere una sua ragion d’essere. L’emergenza era reale e si potevano anche 'superare' le regole che precludono questo tipo di gare ad aziende partecipate da parenti di politici in carica. Il conflitto d’interesse, però, andava dichiarato subito e occorre davvero compiere un atto di fede per credere che Attilio Fontana non sapesse «nulla dell’operazione» condotta dall’azienda del cognato e della moglie «fino al 12 maggio», come ha dichiarato.
Una volta avvertito del potenziale conflitto d’interesse sia dall’assessore sia dalle strutture amministrative della Regione (ma il 10 maggio, secondo le testimonianze), Fontana chiese al cognato di rinunciare al 'negozio' e di trasformare la vendita in donazione. Cosa che verrà fatta in maniera informale (risulta mancante la relativa delibera) e parziale, perché il cognato Andrea Dini cercherà poi di vendere una parte dei camici – prodotti ma non consegnati alla Regione – a un prezzo maggiore a una casa di cura (di qui l’accusa di «frode in pubbliche forniture»). Non ci fossero già abbastanza elementi di perplessità, è a questo punto che emergono altre questioni su cui riflettere. Attilio Fontana, infatti, sembra preoccupato del 'danno' provocato alla Dama Spa e dunque cerca di trasferire all’azienda 250mila euro, a parziale risarcimento del mancato 'negozio'.
Un gesto che nelle intenzioni dovrebbe essere di 'generosità' verso il cognato, la moglie e i dipendenti dell’impresa, vogliamo credere. E però il presidente della Regione Lombardia non dispone il bonifico da un suo conto corrente presso una banca italiana – operazione che sarebbe stata trasparente e visibile - né attraverso la moglie-azionista, ma tenta di farlo (salvo poi bloccare l’operazione) da una banca svizzera. Eh sì, perché Attilio Fontana, secondo quanto emerso dalle indagini, dal 2015 è titolare – legittimamente – di un conto presso la Ubs, nel quale sarebbero stati riversati oltre 5 milioni di euro 'scudati'.
Cioè fatti emergere con lo scudo fiscale da due trust alle Bahamas, di cui era «intestataria » la madre e lui stesso «beneficiario economico» o «soggetto delegato». Neppure in questo caso, dunque, ci troviamo di fronte a un reato, perché la voluntary disclosure approvata per favorire il rientro dei capitali detenuti all’estero (per inciso, criticata con solidi argomenti da questo giornale) ha sanato qualsiasi illecito pregresso. Non cancellando, però, l’assai sgradevole sensazione che Attilio Fontana – figlio di un’evidentemente affermata dentista e avvocato avviato a una prestigiosa carriera politica fin dagli anni 90 – abbia quantomeno preso parte come «soggetto delegato» all’esportazione illecita di capitali e a una probabile elusione fiscale. Non solo. È interessante anche che poi, una volta 'sanato' il patrimonio ereditato, abbia preferito lasciare al sicuro in Svizzera il grosso dei suoi capitali. Forse, chissà, temendo che una patrimoniale li falcidiasse.
Oppure che le spinte sovraniste della sua Lega finissero per prevalere e il ritorno a una lira svalutata ne abbattesse di molto il valore. Sia come sia, fatto sta che un esponente di punta del nazionalismo nostrano, il presidente della Regione locomotiva produttiva d’Italia, preferisce tenere i suoi soldi depositati all’estero, in una banca svizzera. Un altro 'negozio' oggi lecito, certo. Ma opportuno? È interessante che nel suo intervento ieri nell’aula regionale della Lombardia, parlando dell’affaire dei camici, Fontana abbia scelto proprio questo termine 'negozio' al posto di contratto, operazione o compravendita. Nella cultura latina, infatti, il negotium era il contrario dell’otium (il dedicarsi all’arte, alle belle lettere) e stava a indicare soprattutto l’impegno nella politica, nella gestione della cosa pubblica.
Ma anche gli affari commerciali che venivano condotti. Ecco, il negotium che ci si aspetta dal presidente di una Regione è solo il primo. In maniera estremamente trasparente, responsabile e orientata al bene comune. Anche a costo di sacrificare l’interesse particolare di altri 'negozi', magari leciti, ma mai opportuni. Ed è su questo che Attilio Fontana farebbe bene a riflettere e a decidere cosa fare al cospetto dell’opinione pubblica.