Daccapo. A Firenze il processo d’appello che vede Totò Riina unico imputato quale mandante per la "strage di Natale" del 23 dicembre 1984 dovrà ripartire daccapo. Il presidente della Corte va in pensione, e occorrerà riascoltare tutti i testimoni sentiti in primo grado, come previsto dalle recenti modifiche al Codice di procedura penale. Sono passati quasi 33 anni da quella sanguinosa vigilia, un boss mafioso è stato condannato all’ergastolo per strage e tre camorristi per detenzione d’esplosivo, ma il mandante, la mente che concepì il massacro, per la giustizia italiana è ancora ignoto, dopo dubbi e depistaggi che coinvolsero la P2 e l’estremismo neofascista e dopo l’assoluzione di Riina in primo grado, nel 2015.
Il giudice va in pensione, tutto da rifare. È l’immagine di una giustizia fantasma, a fronte dei 16 morti e 267 feriti del 23 dicembre 1984. Molti dei nostri lettori non erano nati, molti erano bambini e non possono ricordare. Il rapido 904 Napoli-Milano era affollato, quel giorno, di gente che tornava a casa per le feste. L’esplosione avvenne nella galleria San Benedetto Val di Sambro, nelle viscere dell’Appennino. Quel sangue lasciò attonita e sgomenta l’Italia, a poche ore dal Natale.
Chi scrive era allora una giovanissima cronista, e la strage del 904 fu per me il primo impatto col terrorismo. Lavoravo per un quotidiano milanese del pomeriggio, la notizia dell’attentato ammutolì di colpo la redazione già pronta ai festeggiamenti. Ci mandarono in due, assieme, a Bologna. Sull’autostrada una nebbia livida sembrava annunciare l’orrore che avremmo visto. Il ricordo è come una istantanea: all’alba, ciò che restava del treno 904 entrò lentissimamente, come un carro funebre, nella stazione di Bologna. Tutti i presenti muti, come in un film senza sonoro, e solo lo sferragliare dei vagoni sui binari.
Mi ordinarono dal giornale di correre all’obitorio. I primi morti cominciavano a arrivare, pietosamente coperti da lenzuola qui e là scarlatte di sangue. Ricordo un braccio inerte che pendeva, nudo, da una barella, e il disperato pensiero che mi attraversò, che noi uomini fossimo tutti come quello, burattini che d’improvviso si rompono per sempre. Ma indimenticabili mi sono le facce, di quell’alba, gli occhi delle mogli che cercavano i mariti, delle madri che cercavano i figli. Una umanità impazzita di paura, già soffocata dal presentimento di un intollerabile dolore.
E c’era quel padre, di lui non mi posso scordare. La sua giovanissima figlia la mattina risultava dispersa. Bussai alla porta della sua casa, tremando fra me. L’uomo mi accolse, con mio grande stupore, gentilmente. Mi fece sedere in salotto e cominciò a spiegarmi che certamente sua figlia era in fuga sull’Appennino, e che di lì a poco la avrebbero trovata. Era un’atleta, diceva, e evidentemente dopo l’esplosione, sconvolta, era fuggita. Tanto incredibile era la speranza di quel padre, che quasi io non osavo guardarlo in faccia. Temevo di svegliarlo dal suo sogno, e che, aperti gli occhi, la realtà gli sarebbe stata insostenibile. Non obiettai niente dunque, e salutando me ne andai quasi in punta di piedi.
Non senza che lo sguardo mi cadesse sulla foto in cornice di una ragazza bruna, sorridente, che un po’ mi somigliava. Per questo l’uomo mi aveva accolta quasi affettuosamente, in una mattina come quella? Sua figlia era morta, naturalmente, accanto alla borsa piena dei regali che aveva comprato a Firenze. Ad ogni notizia sui vari processi per la "strage di Natale" ho ripensato a quel padre. L’esecutore, forse, è stato condannato. Ma il mandante, colui che concepì – in risposta, può darsi, al maxiprocesso a "cosa nostra" – di uccidere tanti innocenti, la vigilia di Natale?
Daccapo, il giudice va in pensione e si rifà daccapo. Immagino che quel giudice quel giorno fosse un giovane magistrato, come io ero una cronista alle prime armi. Non basta il tempo della vita degli uomini, in Italia, per sapere, oltre trent’anni dopo, chi fu. Una giustizia fantasma la nostra, o, piuttosto, il fantasma di una giustizia.