Assuntina Morresi è convinta che la legge sul consenso informato e sulle Dat, approvata lo scorso 14 dicembre, «cambi radicalmente alcuni paradigmi fondamentali della nostra società». Gian Luigi Gigli sostiene che «non è rispettosa della libertà dei medici, come delle istituzioni sanitarie ispirate da idealità che porterebbero a non applicare norme da cui possa derivare la volontaria anticipazione della morte del paziente». Martina Pastorelli rileva che nella legge non si fa cenno all’obiezione di coscienza, che è «un valore anche laico… e che fonda i diritti umani perché insegna che lo Stato non è l’ultimo depositario del Bene». In tre appassionati articoli, apparsi mercoledì su 'Avvenire' continuando il dibattito aperto dall’editoriale del direttore Tarquinio dopo l’approvazione della nuova normativa da parte del Parlamento, si sostiene, sotto diverse angolature, che la prossima legislatura dovrà sciogliere «i nodi di una legge controversa». Sono perfettamente d’accordo: a una condizione, però. Che prima di tornare ad affrontare questi nodi, li si sappia esattamente individuare. Cosa che purtroppo nessuno degli autori dei tre ultimi articoli compie, a mio parere, in modo soddisfacente: essi entrano, con efficacia, nei particolari della nuova legge, ma non sembrano volerne percepire il senso globale.
Il cuore della questione, infatti, possiamo racchiuderlo in questa considerazione (amara, ma inoppugnabile): la nuova legge sancisce il consolidarsi della bioetica (come 'nuovo' paradigma morale) al posto dell’etica medica tradizionale. Sancisce legalmente il passaggio da un’etica medica classica, ippocratica, paternalistica ad un’etica medica post-classica, postippocratica, anti-paternalistica. Introduce in modo irreversibile un’antropologia del consenso informato come base indiscutibile di ogni pratica medica. Si noti che, contrariamente a quanto pensa la professoressa Morresi, non è la nuova legge a cambiare il paradigma sanitario della nostra società; è l’avvenuto cambiamento di questo paradigma che, dopo anni di durissimi e faticosissimi dibattiti, si è alla fine consolidato legalmente anche in Italia, come era inevitabile che avvenisse.
Dobbiamo compiacercene? Per nulla. Dobbiamo reagire? Certamente, e in modo appropriato. La nuova legge è qualificata da un paradigma che un cattolico non può condividere: un paradigma individualistico, funzionalistico, economicistico e soprattutto eticamente freddo. Ma è il paradigma oggi dominante nell’Occidente secolarizzato; ha un formidabile ancoraggio giuridico (l’art. 32 della nostra Cost. che fino a epoche recentissime non abbiamo mai voluto prendere sul serio), è calibrato sui protocolli sanitari più consolidati, risponde nel modo ottimale alla psicologia dominante oggi tra i medici, ma soprattutto prende atto del profondo mutamento che ha eroso la dimensione personalistica della medicina e ne ha esaltato la dimensione tecnologica. La lotta contro questo paradigma potrà anche assumere le forme di una battaglia per modificare la legge appena approvata; ma non è primariamente attraverso battaglie parlamentari che si muta l’etica della medicina contemporanea.
Peraltro, la nuova legge nasce da mediazioni faticose e preziose, che i suoi avversari non sottolineano adeguatamente e che potrebbero anche andare perse, ove la legge venisse riformulata. Si legga il solo art. 1. Il suo 2° comma, ad esempio, esalta «la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico» e dà doveroso spazio al coinvolgimento delle famiglie dei pazienti; il comma 5 impone al medico ogni azione di sostegno, anche psicologico, al paziente competente e informato che intenda rinunciare alle cure, per indurlo a ritornare sulla propria decisione; il comma 7 stabilisce che nelle situazioni di emergenza bisogna comunque assicurare al malato le cure necessarie; il comma 10 introduce il principio secondo cui la formazione dei medici comprende quella «in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative» e infine il 6° comma stabilisce il diritto del medico a rifiutare le indicazioni del paziente, quando queste esigano trattamenti «contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alla buone pratiche clinico-assistenziali». Il che esclude - ribadisco un parere che anch’io ho già espresso anche su queste colonne - che la legge sulle Dat possa essere interpretata, come molti avventatamente fanno, come un’«apertura all’eutanasia». Quale dovrebbe essere, in conclusione, il corretto atteggiamento dei cattolici nei confronti della legge? Lo riassumerei in tre punti. In primo luogo, cercare di depoliticizzarla: le grandi questioni di etica pubblica vanno sottratte, nei limiti del possibile, alle battaglie parlamentari, che riescono solo a involgarirle e a strumentalizzarle. In secondo luogo, i cattolici devono riconoscere la pervasiva dimensione secolare assunta oggi dalla medicina; accettare questa dimensione non significa ovviamente umiliare eticamente le pratiche mediche, ma affidare la loro dimensione spirituale alla pastorale prima che al diritto. In terzo luogo, operare nei confronti dell’autodeterminazione del malato lo stesso sforzo ermeneutico che venne operato dai cattolici nei confronti dell’autodeterminazione democraticoelettorale: come ogni singolo voto in democrazia è insindacabile (ma non sacro!), così va ritenuta insindacabile (ma non sacra!) la volontà del paziente nel paradigma post-ippocratico. Ci aspettano tempi difficili, di riformulazione di idee che ci sembravano immutabili; ma abbiamo il dovere di rispondere sempre alle provocazioni della realtà, anche quando essa non è come vorremmo che fosse.