martedì 2 luglio 2024
A quasi 86 anni l’ex atleta e commentatore tv, diviso tra Italia e Sudamerica, lavora ancora e si affida a un “custode celeste”
Josè Altafini, 85 anni, in uno degli ultimi incontri con l'amico Pelè

Josè Altafini, 85 anni, in uno degli ultimi incontri con l'amico Pelè - Archivio Altafini

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Josè Altafini è come Garrincha, è l’alegria do povo, l’allegria del popolo del Brasile, dove i suoi genitori arrivarono da famiglie di emigranti: «I genitori di papà da Rovigo, i nonni materni da Caldonazzo», dice con il sorriso dell’eterno ragazzo di Piracicaba, la città sul fiume omonimo dello Stato di San Paolo dove è nato nel 1938. Il 26 luglio saranno 86 primavere di bellezza e anche di lavoro: «La pensione? Quella simbolica da calciatore, ma non ho mai smesso di lavorare, ho tre datori di tre settori diversi, né di viaggiare. Faccio 300 chilometri al giorno con la mia macchina e quando viaggio da solo penso alla mia vita... Salga, le faccio una confessione che non ho mai fatto con nessuno: quando ripenso alla mia vita calcistica provo una grande tristessa», striscia la sua s sibilante paulista.

Ma come è possibile? A 19 anni era già sul tetto del mondo con il Brasile…

Già, ma non mi sono neanche accorto. Lo capisco adesso quando vedo Messi che alza quella Coppa del mondo e allora mi dico, ma tu l’hai fatto nel ’58 e non hai capito che cosa grande stavi vivendo. Perché non hai fatto di più quando potevi? Mi ripeto durante questi miei viaggi quotidiani.

E che risposta si dà?

Mi dico che non ho fatto la vita da atleta al 100% e che avrei dovuto pensare meno a me stesso e di più con la testa, magari quella di Pelè che nel ‘58 aveva 17 anni, ma ragionava già con la maturità di un vecchio saggio. Io invece due anni più grande di lui, ridevo, scherzavo, non ho mai preso veramente sul serio quello che consideravo solo un gioco che mi veniva molto facile. Quando ho cominciato a capire, ormai era tardi, perché nella vita non è come il calcio, non esiste il secondo tempo per recuperare quello che hai perso.

Che cosa pensa di aver perso?

Il nome. In Brasile tutti mi conoscevano come Mazzola perché somigliavo al grande Valentino, il papà di Sandro e Ferruccio... Un giorno quando ero al Milan vennero a trovarmi a Milanello e Sandro, il più grande, mi ha ricordato tempo fa che gli tremavano le gambe nel vedermi perché ero il sosia del suo papà, morto con il Grande Torino (4 maggio1949) nello schianto di Superga…

Una tragedia nazionale per noi italiani, ma che c’entra il suo nome?

Dopo tre mesi che ero in Italia non mi hanno più chiamato Mazzola, ma Altafini. Se fossi stato più intelligente gli avrei chiesto di non chiamarmi così, perché Altafini non è mica un nome da calciatore di fama internazionale. Sì d’accordo in Italia mi conoscevano tutti, ma nel mondo sarei diventato molto più famoso se mi fossi chiamato Zezzo, come mi chiamava in casa mia mamma. Zezzo valeva quanto Didì, Vavà, Pelè…nomi da veri calciatori che restano nel tempo nella mente dei tifosi di tutto il mondo.

Ma intanto con Pelè ha giocato e vinto il Mondiale.

Nel ’58 in Svezia ero ancora Mazzola, uno dei ragazzi della ginga. Ma nel ’62 ero diventato Altafini, l’oriundo della Nazionale italiana in Cile, e non parliamo di quel Mondiale per carità, basta con la “Corea azzurra”... Scelsi l’Italia perché il Brasile non convocava i calciatori che giocavano all’estero. Julinho nel ‘58 era l’ala destra più forte del mondo ma siccome giocava nella Fiorentina non lo chiamarono e così poi è nata la stella di Garrincha. Un’ingiustizia nei confronti di Julinho, ma mai grave quanto la mia che a 23 anni per le leggi della Fifa non potevo più rispondere alla chiamata di nessuna nazionale. Mi hanno eliminato. Se non avessi giocato in Italia, come Pelè avrei vinto tre mondiali con la Seleçao. Ora capisce quando le dico che guido, penso e provo tanta tristessa…

Prova “tristessa” anche quando ripensa al gol della finale di Wembley? 22 maggio 1963 il Milan con la sua doppietta al Benfica è il primo club italiano a vincere la Coppa dei Campioni.

No, per quello rido, avevamo battuto il grande Eusebio. Il gol del 2-1 fu il mio 14° gol in quella edizione della Coppa dei Campioni, un record. Rivera mi passa la palla a centrocampo e comincio a correre verso la porta del Benfica, in quegli attimi sono tornato bambino... Mi sono sentito come quando a piedi nudi con gli amici di Piracicaba andavamo a rubare i mandarini e il custode del campo ci correva dietro con il bastone... Quando sono entrato in area e ho tirato ho pensato: adesso il custode non mi prende più.

In quel Milan ha visto nascere la stella di Rivera e a Milano ha incontrato la donna della sua vita.

Rivera rimane il più grande talento del calcio italiano. Adesso non a caso vivo ad Alessandria dove è nato Gianni – sorride – . Sto lì con mia moglie Annamaria. Il nostro è un grande amore, un matrimonio che dura da sessant’anni. Tanti miei amici dopo che hanno perso la moglie sono morti nel giro di un anno, Cesare Maldini addirittura dopo un mese. Spero – sorride -, sì spero che Annamaria viva fino a duecento anni.

Se ne è andato da poco Gigi Riva, allora fu un suo diretto concorrente nella classifica dei capocannonieri.

Riva è stato un gigante, come calciatore e come uomo. Prima che morisse l’ho incontrato e mi ha detto: «Josè, certo che con i palloni leggeri di oggi e i campi curati da cento giardinieri senza segatura davanti alla porta e il ghiaccio come quando giocavamo d’inverno a San Siro, aggiunsi - , io e te avremmo segnato 50 gol a campionato». Aveva ragione Gigi.

Quando dal Milan passò al Napoli giocava con l’antesignano di Maradona, Omar Sivori.

Omar, che personaggio. Vomitava sempre prima della partita, come Cesare Maldini al Milan. Ma Sivori quel momento lo faceva diventare la sceneggiata del n. 1: tutti intorno a lui a chiedergli se voleva l’acqua calda, la limonata. Gli piaceva essere trattato da re, e io l’avevo capito. Così prima di partire per il primo ritiro del Napoli all’Aquila andiamo in macchina assieme e durante il viaggio gli dissi: Omar, io non voglio diventare il re, a me basta che mi passi la palla e faccio gol. L’ultima volta che ci siamo visti in Germania con un pizzico di tristessa mi disse: «Josè, tu con questi di adesso potresti ancora giocare, io invece no».

L’addio al calcio che conta lo diede nel ’76, alla Juve, dove inventarono la “zona Altafini”: ingresso a partita in corso con gol risolutivo.

Per uno come me che aveva segnato quasi 300 gol e vinto praticamente tutto quella non fu una bella etichetta. Avevo 34 anni quando sono arrivato alla Juventus e accettai perchè erano sette anni che non giocavo più la Coppa dei Campioni. Alla Juve ho cominciato con Vycpálek, lo zio di Zeman, poi Parola e infine Trapattoni che era stato mio compagno al Milan e mi chiese di rimanere, ma non ne potevo più. L’ultimo anno mi ero allenato sempre per giocare 90 minuti in tutto il campionato. In compenso sono rimasto a vivere a Torino per quarant’anni.

Ha citato Zeman, il paladino della lotta al “calcio malato” che ha scatenato il primo processo per doping contro la Juventus. Molti calciatori della sua generazione hanno confessato di aver preso farmaci, Altafini che dice?

Zeman l’ho conosciuto poco, ma penso ce l’avesse con la Juve perché da bambino era tifoso della squadra dello zio e l’avrebbe allenata volentieri. Io dico che quando è arrivato Helenio Herrera all’Inter hanno cominciato a fare i controlli antidoping, di più non so. Qualche “pilloletta dello studente” l’abbiamo presa tutti, e dopo infatti io non dormivo la notte.

Per quelle pillole molti calciatori si sono ammalati o sono morti, lei non ha mai avuto paura di morire.

No, perché ho visto la morte in faccia già da bambino quando stavo per annegare nel fiume. A 12 anni ero praticamente morto di peritonite e poi un paio di volte “lui” mi ha salvato da degli incidenti aerei. Se faccio il conto “lui” mi ha salvato la vita quattro o cinque volte almeno, perciò non ho paura della morte.

Scusi, ma “lui” chi è?

Come chi è? Il mio angelo custode. Non lo vedo, ma ci parlo tutti i giorni e “lui” mi avverte sempre un attimo prima, anche quando sto per prendere una buca con la macchina, come adesso. Un giorno mentre camminavo con un amico per le strade di San Paolo una medium mi ha detto che sopra di me c’è una figura molto potente con l’aureola luminosissima che mi protegge, da sempre. Io credo in Dio, ma come Pelè credo anche in quel sincretismo tra cattolicesimo e spiritismo.

Lo spiritismo del più spiritoso dei telecronisti degli anni ’80-‘90’.

Fin da piccolo la mia passione è stata la radio. Poi un’estate torno in vacanza in Brasile e sento un telecronista che annoiato dalla partita si mette a raccontare una barzelletta infinita. Oh, sono rimasto 90 minuti incollato alla tv a vedere quella partita noiosissima solo per sentire come andava a finire la barzelletta. Allora quando sono tornato in Italia a Telemontecarlo nacque una grande coppia con Luigi Colombo e con lui ho commentato il calcio più o meno come faceva quel collega brasiliano.

Ha creato uno stile divertente con un linguaggio nuovo, fatto di slogan che vengono ancora citati.

Avevo inventato il mio “manuale del calcio”, stile manuale delle Giovani marmotte di Topolino. Confalonieri quando entrava a San Siro guardava su verso la mia postazione e chiedeva: «Josè che pagina leggiamo oggi del tuo manuale del calcio?». Poi condivo la telecronaca con termini tipo “Golasso”. Tutti ridevano, poi un telespettatore chiamò indignato la redazione: «Dite ad Altafini che la smetta di dire le parolacce in diretta». Ma “golasso” in Sudamerica lo dicono tutti da una vita. “Incredibile amisci” invece è roba mia. “Cucugiangia” non è mia ma di quel genio di Crozza.

Altafini, siamo alla fine del nostro viaggio insieme: dica la verità, ha mai pianto per il calcio?

No, anche perché in tanti anni passati nel mondo del pallone ho conosciuto milioni di persone ma ho avuto un solo vero amico, Francesco Morini. Quando l’hanno scorso Francesco è venuto a mancare per lui sì che ho pianto. Il calcio ho capito che è come un villaggio vacanze: arrivi, diventi amico di tutti, ti scambi il numero di telefono e poi non ti vedi più con nessuno e con il tempo nessuno si ricorda più di te. Però, il calcio mi ha anche insegnato la diplomazia, il sapere stare al mondo e a non soffrire di saudade per il Brasile. Io, da sempre, ovunque vado quel posto dove mi fermo diventa subito casa mia.

Grazie del passaggio, Josè!


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