La legge sul biotestamento o fine-vita da qualche giorno approvata non prevede la possibilità dell’obiezione di coscienza. Ma la questione esiste, perché l’obiezione non è una concessione del legislatore, ma un diritto della persona, legato alla doverosità del bene e del male morale: bene da compiere ( bonum faciendum) il primo, male da evitare (malum vitandum) il secondo.
Doverosità percepita dalla coscienza, al cui vincolo il soggetto è sottomesso e che nessuna autorità può disattendere, forzare o contrastare. Pena la sua deriva totalitaria. Motivo per cui nel conflitto tra legge e coscienza c’è un primato della coscienza sulla legge. Riconoscere quel primato è indice di umanità e di civiltà. Recepirlo in un ordinamento giuridico è elemento qualificante di uno 'stato di diritto'. Nella legge in questione è in gioco il bene della vita con i suoi obblighi morali non solo per il soggetto ma anche per chi opera su di essa, medici e operatori sanitari in primis. Bene sottoposto al dovere imperante: Rispetta e cura la vita! E proibente: Non uccidere! La legge dà facoltà al soggetto di disporre anticipatamente o concomitantemente dei trattamenti da attuare o cui rinunciare in fase particolarmente critica o terminale della vita. Disposizioni rivolte ai medici in forma obbligante, come prescrive la legge: 'Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente'. Volontà che può contrastare con la coscienza del medico in cui quel dovere risuona. Contrasta perché lo obbliga a far morire una persona, a fungere da assistente di un suicidio, attraverso tutte quelle omissioni (di nutrizione e idratazione in ispecie), palliazioni e sedazioni che portano alla morte indolore (eutanasia) di un individuo.
Configurandosi tutto questo come soppressione volontaria e diretta di una vita umana, la coscienza dissente e obietta. L’obiezione di coscienza concerne ingiunzioni della legge a compiere scelte evidentemente soppressive di una vita. Non è questo il caso della rinuncia a trattamenti inutili e sproporzionati, che danno luogo a forme di ostinazione terapeutica, con un allungamento penoso della vita. Con tale rinuncia non si procura la morte, ma 'si accetta - dice papa Francesco - di non poterla impedire' e si aiuta il paziente ad accoglierla e viverla come l’ultimo atto della vita.
Non è neppure il caso di situazioni complesse, in cui il confine tra cure dovute e trattamenti eccessivi, tra mezzi proporzionati e sproporzionati, tra abbandono e accanimento terapeutico non è evidente ma osmotico e indistinto. Il che è oggi sempre più frequente e possibile per l’incredibile complessità raggiunta dalla medicina, la problematicità clinica del paziente da essa accresciuta e i pesi e i costi che trattamenti sempre più sofisticati impongono. Motivo per cui ciò che è da fare o da evitare, da continuare o da sospendere è frutto di un discernimento della situazione clinica del paziente, in rapporto ai mezzi disponibili e ai risultati sperabili, che perviene a un giudizio 'in scienza e coscienza' di azione da compiere o da evitare. Discernimento e giudizio da condividere possibilmente col paziente o il suo fiduciario. Tale giudizio è la norma da seguire per il bene della persona e la bontà dell’operare medico. Come tale va riconosciuto e rispettato.
Va anche detto che una via all’obiezione di coscienza, non senza qualche contraddizione, la stessa legge la apre, quando aggiunge: 'Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinicoassistenziali. A fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali'. Questo significa che il medico può sempre appellarsi alla deontologia medica e alle buone pratiche a tutela e difesa delle sue scelte e del suo operato secondo coscienza.