Non è stato un bel giorno per l’Italia, questo giovedì 14 dicembre 2017. Proprio per nulla, anche se ci sono numerosi politici e opinionisti che lo definiscono – come ormai si usa sin troppo spesso – «un giorno storico». Non è un bel giorno per l’Italia, perché purtroppo nasce male la legge sul fine vita o sulle Dat o sul biotestamento (chiamatela come volete), che anche su queste colonne di giornale e da diversi anni a questa parte avevamo chiesto di varare. Nasce, infatti, come frutto di un complesso (e anche benintenzionato) lavorìo e di un voto finale segnato dalla chiarezza di una vasta maggioranza parlamentare – imperniata per la prima volta sull’asse tra senatori del Pd e dei 5 Stelle –, ma senza la chiarezza normativa necessaria a scongiurare forzature e con un potenziale dirompente in grado di generare abbandoni terapeutici e forse persino incapace di evitare derive verso quell’eutanasia che, al pari del suicidio assistito, la legge in sé non prevede, ma che rischiano di essere innescate dall’incredibile e deresponsabilizzante esautoramento dei medici, dall’impostazione dirigista verso le strutture sanitarie pubbliche e private e dalla prevedibile spinta verso una nuova stagione di mirati contenziosi giudiziari.
Questa legge, insomma, non convince e non può piacere, e chi si spella le mani senza averla letta farebbe meglio a informarsi a dovere. E dovrebbe anche cominciare a riflettere con giusta intensità sulla gravità del colpo che, con leggerezza infelice, viene assestato al bene essenziale dell’alleanza terapeutica tra il paziente (con la sua libertà, le sue fragilità, le sue umanissime attese) e i medici (che sono chiamati a curarlo, agendo in scienza e coscienza). Siamo tra quanti credono che la generosa umanità del personale sanitario italiano e le naturali prudenza e saggezza dei piccoli e dei deboli eviteranno i danni più gravi, ma non possiamo tacere quanto deluda e allarmi la miopia e la retorica vuota dei troppi parlamentari che hanno votato "sì" straparlando del «diritto finalmente riconosciuto a una morte degna».
Chi ha mai negato questo diritto, costringendo a vivere indegnamente e nella sofferenza? Dove mai è accaduta una simile assurdità se non nelle propagande pro-eutanasia o pro-suicidio assistito? Perché, intanto, si sottace e nasconde (e non si attua al meglio) l’eccellente legge che l’Italia si è data per assicurare le cure palliative ai suoi cittadini, cure che servono, appunto, a cancellare il dolore e ad accompagnare all’ultimo traguardo, anche avvicinandolo, senza indifferenze e senza inutili accanimenti?
La «morte degna» non è un eroico e persino titanico esclamativo finale, ma il compimento di una vita rispettata in ogni suo momento e della quale davvero, e umilmente, ci si è presi cura.
No, non è stato un bel giorno per l’Italia, questo giovedì 14 che si è consumato nel cuore di dicembre. Perché il Ministero della Difesa ha confermato – e quasi nessun uomo politico e opinionista ha battuto ciglio – ciò che un giornale, 'la Repubblica', aveva rivelato di buon mattino. E cioè che la missione militare italiana di «addestramento» in Niger – annunciata sin dallo scorso maggio e appena confermata in quei precisi e ben limitati termini dal presidente del Consiglio dei ministri – sarà anche qualcosa di molto diverso, visto che comporterà pure l’impegno dei nostri soldati in «attività di sorveglianza e controllo del territorio». In parole povere, i militari italiani andranno – e idealmente andremo tutti noi con loro – a pattugliare le piste desertiche del grande Paese africano. E lì agiranno. Contrasto al terrorismo era l’obiettivo dichiarato dell’addestramento.
Ora salta fuori anche il contrasto ai trafficanti di esseri umani. Magari... Si annuncia piuttosto, e già se ne sono viste le prime prove a cura di «soldati addestratori » con altre uniformi, il perfezionamento della caccia a profughi e migranti irregolari. Cioè praticamente tutti. Come stupirsene del resto? La 'caccia' è parte inevitabile dell’operazione-saracinesca (ovvero di esternalizzazione dei confini d’Europa) che è stata immaginata e pianificata nelle terre chiamate Sahel e che a tutt’oggi rappresenta tristemente la porzione davvero operativa della cooperazione rafforzata euroafricana. Lo sviluppo può attendere, non il blocco contro gli scomodi attraversatori del mare di sabbia.
Protagonisti di drammi, speranze e storie di ordinaria eppure struggente umanità che anche su queste pagine – con fedeltà ai fatti e alle vittime – abbiamo cercato e cerchiamo di far 'vedere' grazie all’inerme forza dei reportage da Agadez (memorabili quelli di Matteo Fraschini Koffi), e dalle altre 'Lampedusa del deserto', delle testimonianze di sopravvissuti e di operatori umanitari, del poetico, dolente e spesso cristianamente furente 'diario irregolare' da Niamey, Niger, che padre Mauro Armanino condivide con noi a cadenza quindicinale giusto da tre anni. Sia chiaro: il valore umano degli italiani che vestono la divisa non è in discussione. L’hanno dimostrato e lo dimostrano ovunque: dal Libano all’Afghanistan, dal Kosovo all’Iraq. E nessuno dubita che i 'nostri' avranno in mano, per stile e cultura, borracce e non bastoni o, peggio, bombe davanti ai poveri che affrontano aride distese sognando un 'al di là dal mare'.
Ma il contesto, il senso e il costruito consenso che rendono possibile e giustificano queste operazioni militari in terra saheliana sono dolorosamente chiari. Perché è del tutto chiaro che esse intendono raddoppiare la barriera frettolosamente e imperfettamente costruita nel Mediterraneo di fronte alla Tripolitania e alla Cirenaica per sigillare le violenze e le sopraffazioni dei rinchiusi nei piccoli e grandi lager libici, documentate, anche qui, da reportage della stampa internazionale e di 'Avvenire' (grazie alla lucidità e al coraggio del collega Nello Scavo) e tragicamente scolpite in un solido e rovente rapporto di Amnesty International sulle complicità europee con quei misfatti. Rapporto che abbiamo anticipato martedì 12 dicembre, e che troppo pochi sembra aver scosso. Si tira diritto, su ogni confine della vita. In questa Italia dove c’è chi fa festa per la 'libertà di morire' (che esiste – vertiginosa possibilità per ogni persona – e che nessuna legge umana dovrebbe mai azzardarsi a regolare), sembra non far notizia come dovrebbe e non suscitare emozioni e reazioni la morte dell’umanità che rischiamo di celebrare anche noi italiani, da guardiani d’Europa, d’una malintesa idea d’Europa. Ma se la vita e la dignità della vita non si amano e non si difendono sempre e interamente, accanto agli esseri umani, sono solo l’alibi di algide astrattezze e di letali indifferenze. Un alibi che non regge. Se a questo la politica si rassegna, il male è grande e il danno di più.