«Aboubacar Traoré! Issa Nadim! Didier Binà! Matteo Koffi!». Le tre di venerdì mattina in una stazione dei pullman alla periferia della capitale nigerina, Niamey. Un impiegato della società di trasporto Rimbo urla dal finestrino i nomi dei passeggeri. Quasi tutti hanno dormito in stazione poiché sono solo di passaggio. Si viaggia in convoglio per questioni di sicurezza.Due bus della Rimbo partono insieme a quelli della Sonef, le due migliori compagnie di pullman della regione. Di proprietà di una famiglia tuareg, la Rimbo è considerata sofisticata e precisa. Il biglietto costa 19mila franchi Cfa, 28 euro. I mezzi sono quasi tutti nuovi, hanno l’aria condizionata e due televisori. Viaggiano due volte al giorno, ogni giorno della settimana, partendo alle 4 o alle 14 da Niamey e arrivano ad Agadez, detta la «Lampedusa del deserto», 17 ore dopo. Se tutto va bene. Il motore comincia a sbuffare. Partiamo puntuali. La prima sosta è a Dosso, 130 km a sud della capitale. Circa il 50% dei passeggeri non sono nigerini. Arrivano da diversi Paesi dell’Africa occidentale e centrale. Dopo alcuni giorni di viaggio, sperano di arrivare ad Agadez in pullman per poi continuare verso la Libia o l’Algeria con camion oppure, se hanno abbastanza soldi, a bordo di jeep 4x4. Una minoranza vuole invece raggiungere l’Europa. Man mano che ci si avvicina ad Agadez, la storica porta del deserto a oltre 900 km da Niamey, il timore è quello di essere arrestati e rimandati indietro. Molti non hanno né passaporto né carta d’identità. Altri, invece, viaggiano con una somma di denaro non sufficiente a corrompere le autorità. Ed ecco infatti il primo posto di blocco all’uscita di Dosso. Un poliziotto corpulento, munito di pistola e occhiali scuri, inizia a richiedere i documenti di ogni passeggero. I nigerini possono restare seduti. Gli stranieri, anche chi ha i documenti, devono scendere. È la seconda volta che faccio questo viaggio e so che nel mio caso - un occidentale di origine africana - le opzioni di scendere o rimanere seduto sono a totale discrezione dell’agente. «Lei è italiano?», mi chiede il poliziotto mentre sfoglia il passaporto con molta curiosità.«Sì, ma di origine togolese», rispondo. «Ok, può rimanere seduto».L’ufficiale scende con in mano una ventina di documenti tra passaporti e carte d’identità e urla alla fila di migranti che lo aspettano di recarsi verso l’ufficio di sicurezza: una capanna. Dopo 20 minuti tutti risalgono e l’autista riprende il viaggio. La stessa cosa succede nella due soste successive. Ma al posto di blocco di Abalak la tensione sale. Un poliziotto inizia a schiaffeggiare Mohammed, maliano, usando la sua stessa carta d’identità. Uno ad uno, i non-nigerini, scendono tutti. «Lei è italiano? Scenda subito!», intima il magrissimo ufficiale trattenendo il mio passaporto.Paradossalmente, ho un’espressione di sollievo. Solo confondendomi tra i migranti potrò vedere cosa succede ai posti di blocco. Gli agenti continuano a urlare e a spintonarci mentre ci forzano ad entrare nella capanna. Un altro poliziotto, con una profonda cicatrice sul sopracciglio sinistro, ci guarda ridendo: «Ma quanta bella carne! Se non fosse per il mio collega, vi mangerei tutti, uno a uno», afferma. So che ogni minuto in questa situazione è una riga in più sul giornale. Dopo alcuni minuti, un militare altrettanto aggressivo arriva spingendo un gruppo di 7 giovani ragazze, nigeriane e ghanesi, e il loro trafficante, un robusto ghanese di trent’anni. «Ho pagato il doppio del biglietto all’autista per ogni ragazza che sto portando con me – mi aveva confessato durante le prime ore di viaggio – arriveremo in Libia in 2 giorni». John, nome di fantasia, era salito a Tahoua insieme alle ragazze che stava trafficando a partire da Cotonou, in Benin. Almeno 4 di esse non dimostravano più di 16 anni. «Tutti dentro, tutti dentro! – urla il militare, minacciando di colpirci con una specie di frusta – Sedetevi, sedetevi!» Un uomo originario del Burkina Faso non si vuole sedere. Protesta dicendo che «con la forza non si ottiene nulla». È però chiaramente spaventato. I suoi occhi iniziano ad arrossire e sembra prossimo al pianto. Il poliziotto con la cicatrice gli fa lo sgambetto e lo atterra: «Ora tirate fuori 10mila franchi ognuno, altrimenti tutti in prigione, da qui non ve ne andate!». Le angherie continuano: «Tu da dove vieni?!», chiede più volte il militare a una ragazza che per paura indietreggia fino a toccare con la schiena la parete della capanna. Dopo un po’ di esitazione, lei risponde timidamente: «Dalla Nigeria». All’improvviso, irrompe nella tenda il poliziotto che sull’autobus aveva raccolto i documenti. «Attenzione, c’è un italiano tra questi!», si affretta a precisare in francese. I suoi colleghi lo guardano stupito. «Un italiano? E chi sarebbe?». Mi scappa un sorriso. Mi dicono di raggiungerli davanti e iniziano le domande con un tono molto più contenuto: «Cosa fa? Dove sta andando?».Il poliziotto dalla profonda cicatrice mi guarda stranito. Dopo avergli detto che sono un fotografo, vogliono vedere la macchina fotografica. Ispezionano ogni foto e confiscano l’apparecchio. «Vada fuori dalla capanna ad aspettare». Nei lunghi 15 minuti passati sotto il sole nigerino, non è difficile capire cosa succede: i passeggeri rilasciati hanno dovuto pagare.Finiti gli "accertamenti", il militare torna per darmi la macchina fotografica dicendo: «Visto che lei ha tutti i documenti, allora può continuare senza problemi – spiega con un tono di ipocrita professionalità –. Il Niger è uno Stato di diritto». John, invece, ammette di non avere più soldi per corrompere gli agenti.L’autista del pullman cerca di risolvere la situazione mentre le ragazze vengono spinte sopra il cassone di una jeep della polizia. Le più piccole continuano a piangere, le altre hanno l’aria spaventatissima. Mi fissano con la speranza che un giornalista italiano possa fare qualcosa per loro. Mentre John convince il poliziotto a farsi arrestare per non abbandonare le migranti, salgo di fretta sul pullman e dal finestrino oscurato scatto alcune foto. Gli agenti buttano i bagagli del gruppo nel cassone e partono. Trasferisco quindi le immagini su una chiavetta per evitare che il prossimo ufficiale le trovi nella macchina fotografica. Dopo oltre 5 ore di viaggio arriviamo alla periferia di Agadez. Anche qui, nonostante il passaporto, vengo fatto scendere. Mentre cammino in fila verso la prossima capanna di detenzione, guardo verso l’alto. Un cielo incredibilmente stellato è testimone delle ingiustizie che intercorrono in Niger sulla via dei migranti. Dentro la capanna, una ventina di essi, passeggeri di un altro pullman, sono seduti davanti a un militare. Quest’ultimo ci avverte subito che: «Chi non pagherà 10mila franchi può mettersi nell’angolo per il resto dei suoi giorni senza che gli sia ridato il documento». Anche qui, si accorgono in ritardo di avere un passaporto italiano tra le mani. «Chi è l’italiano?», grida il militare. Dopo le stesse domande di circostanza, mi rilasciano. Il pullman, ormai decimato, raggiunge alle 22.30 la stazione di Agadez.