«Doppio cognome, piano inclinato». La differenza sessuale è ricchezza
sabato 24 giugno 2017

Gentile direttore, non si stupisca se torno a sollevare la questione del cognome paterno, riferendomi alla risposta data dal suo collega Luciano Moia al signor Cortese il 12 novembre 2016. Mi è ricapitato in mano l’articolo e non resisto alla tentazione di riprendere il tema. Non condivido, infatti, diverse delle cose scritte dal dottor Moia. Innanzitutto, non sono convinto che il progetto in cui la sentenza si inquadra non sia quello di far sparire il cognome del padre dall'anagrafe dei cittadini italiani e sono convintissimo che la sua permanenza sia tutt’altro che un punto fermo. Altre questioni di questa importanza hanno dimostrato più volte il teorema del “piano inclinato”: si parte con un cambiamento minimo e si procede piano piano per arrivare a rivoluzionare totalmente. Così, quello che mi aspetto e che temo è che si cominci con l’affiancare a quello paterno il cognome materno, trasmettendo quello paterno (come nei Paesi ispanofoni, come correttamente messo in luce nella risposta). Il passo successivo sarà quello di invertire l’ordine dei cognomi, poi quello ancora successivo quello di trasmettere solo quello materno e, infine, di togliere il cognome paterno, odiato dai “politicamente corretti”.

Se ciò avverrà, però, sarà stata commessa una grossa ingiustizia: nella filiazione, la parte debole non è la donna, ma l’uomo. Infatti, mentre non è possibile sbagliare la madre (mater certa pater incertus, si dice), lo stesso non vale per il padre e, se si deve dar retta alle statistiche sulle ricerche di paternità, questo capita più spesso di quanto a me piacerebbe credere. Dunque, il passaggio del cognome da parte del padre è insieme la presa di coscienza della paternità (che non è automatica come la maternità, ma è per scelta da parte del padre e per riconoscimento da parte del figlio) con un bilanciamento dei diritti. Che il declassamento del cognome paterno, poi, possa ridurre i femminicidi è tutto da dimostrare. A me pare piuttosto il contrario: chi arriva a un gesto del genere, spesso è frustrato (si sente nell’angolo) e sfoga con la violenza la propria debolezza; in questo senso è abbastanza curioso che i giornali, mentre mettono correttamente in luce le angherie (quando ci siano) che la vittima ha subito, non permettono mai di comprendere se l’aggressore abbia dovuto sopportare un carico pesante che, lungi dal giustificarlo, permetterebbe però una più corretta conoscenza del problema e la spiegazione di atti per altri versi inconcepibili. Bisognerebbe, al contrario, dare maggior valore alla paternità e ridare un posto nella società agli uomini (oggi scacciati da ogni dove da un femminismo sempre più pervasivo) per vedere sviluppato il senso di protezione maschile nei confronti delle donne. Mi piacerebbe anche che si ricordasse che, comunque, il 70% dei morti ammazzati sono di sesso maschile... Cordiali saluti

Francesco Paolo Vatti


Gentile dottor Vatti, il direttore mi passa la sua lettera e ben volentieri riprendo il filo di quel ragionamento. L’argomento rimane importante e non è mai inutile ribadire la nostra posizione che non è però fissata per sempre, ma può svilupparsi e arricchirsi anche grazie a osservazioni interessanti come quelle che lei propone. Prima di tutto, però, mi consenta di esprimere soddisfazione per l’amicizia che ci dimostra. Il fatto che, a distanza di oltre sei mesi, lei riprenda in mano “Avvenire”, lo rilegga e senta la necessità di scrivere per puntualizzare e anche per dissentire, non può che fare piacere. Ora, l’eventualità che lei paventa – che cioè il cognome paterno dopo un periodo di affiancamento finirà per scomparire del tutto – mi sembra francamente improbabile. Perché mai dovrebbe capitare?

Come già detto, nei Paesi di tradizione ispanica, dove la prassi del doppio cognome, paterno e materno, è invalsa da secoli, questo rischio non è mai stato preso in considerazione e non c’è nulla che faccia prevedere questa involuzione. Non credo neppure sia opportuno guardare alla complessità e alla bellezza della filiazione tentando di definire una parte “debole” e una “forte”. La decisione che ci ha indotto a salutare con soddisfazione la decisione della Consulta – che come è noto nel novembre scorso ha definito illegittima la norma che prevedeva l’automatica attribuzione del solo cognome paterno – nasceva proprio dalla possibilità di superare qualsiasi contrapposizione tra i ruoli. Certi che solo dal rispetto anche nominale di quell’alterità e di quella reciprocità che caratterizza e alimenta il senso profondo della relazione uomo-donna (e poi padre-madre) possa nascere un’alleanza densa di senso e di progettualità buone per la coppia stessa, per la famiglia e la società intera. Quando questa alleanza si spezza, quando lo spirito di collaborazione lascia spazio a rivalse, ansie di supremazia, volontà di far prevalere un ruolo a danno dell’altro – come sono le varie forme di femminismo ma anche di maschilismo – la logica del “piano inclinato” che lei evoca apre la strada a discriminazioni di ogni tipo di cui femminicidi e utero in affitto sono certamente conseguenze estreme e definitive. Certo, non tutte le incomprensioni di coppia hanno per fortuna esiti così devastanti, ma proprio per metterci al riparo da quelle derive occorre sfruttare tutte le possibilità offerteci per armonizzare, sostenere e rinnovare, su un piano di pari dignità, la ricchezza della differenza sessuale. Se il “doppio cognome” va in questo senso, perché demonizzarlo a priori? Attendiamo prima di vederne gli esiti.

Luciano Moia

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