Caro direttore, ho letto con interesse l’articolo di Luciano Moia del 9 novembre 2016 sul 'sì' della Corte costituzionale al doppio cognome per i figli. E mi ha sorpreso la netta presa di posizione del bravo articolista che stimo molto, a favore della decisione della Consulta, addirittura usando toni trionfalistici («per qualche irriducibile difensore di una certa archeologia paterna potrà avere il sapore dell’ennesima prevaricazione contro il ruolo tradizionale della supremazia maschile nella coppia»). Ebbene sì, allora faccio parte di quella schiera di antidiluviani difensori che pensano non sia un delitto dare al figlio il cognome del padre. Ma non perché il padre sia più importante della madre - entrambi hanno collaborato al concepimento di quella nuova creatura e il corredo genetico del nascituro è costituito da DNA donato esattamente al 50% da ognuno dei due genitori -, ma soltanto perché così è sempre stato, io credo, fin dalla notte dei tempi. Mi pare che questo del cognome sia un falso problema, che viene a sommarsi a tutti gli altri ben più gravi e pesanti che riguardano la famiglia umana (ideologia gender, coppie omosessuali, fecondazione eterologa, gravidanza surrogata, commercio di gameti...). Proprio non se ne sente il bisogno, dico la verità... Mi domando che male ci sia se un bambino/a riceve il cognome di suo padre, che lo accoglie e se ne prende cura. Se poi si considerano i problemi pratici e le confusioni che discendono dal doppio cognome, problemi peraltro ben illustrati da Moia, non mi sembra ci sia molto da rallegrarsi per questa decisione della Consulta. Cerchiamo piuttosto di vivere sereni, di formare famiglie sane e forti, costruite sulla roccia, generose, accoglienti dove tutti i componenti sono importanti e necessari, anche se ai figli è stato imposto un solo cognome. Caro direttore, mi scuso se sono stato troppo irruento, ma 'Avvenire' è una famiglia e qualche volta ci può essere qualche piccolo contrasto… Un caro saluto a lei e a tutti i suoi collaboratori.
Roberto Cortese Lerici (Sp)
Il direttore mi invita a dialogare con lei, gentile dottor Cortese, e io lo faccio ben volentieri. Anche perché lei mi offre lo spunto per tornare su un tema che ha fatto vivacemente discutere i nostri lettori su Facebook. Lei pensa che «non sia un delitto dare al figlio il cognome del padre». E questo – insieme al legislatore e ai giudici della Consulta – lo penso anch’io. Ma in Italia il cognome del padre non sparirà. E questo è un punto fermo. Ma perché dovrebbe essere invece un delitto associare il cognome della madre a quello del padre? Visto che, come lei ribadisce, «entrambi hanno collaborato al concepimento di quella nuova creatura e il corredo genetico del nascituro è costituito da DNA donato esattamente al 50% da ognuno dei due genitori», perché dovrebbe essere considerato inopportuno sottolineare questa 'pari responsabilità' di padre e madre scegliendo la strada del doppio cognome che richiama anche formalmente una 'pari dignità' in tutti gli altri aspetti della vita di coppia e di famiglia, nelle dinamiche coniugali e nell’impegno educativo? In Spagna e in America Latina seguono questa strada da alcuni secoli e non mi pare che in quei Paesi il fatto di aggiungere il cognome della madre a quello del padre abbia determinato una perdita di autorevolezza e uno svuotamento di significato della figura paterna. Almeno non peggio di quanto sia capitato in altre parti del mondo occidentale dove quest’uso è sconosciuto. Ma ci sono altre ragioni, ben più profonde, che hanno indotto a sottolineare con soddisfazione - pur con tutte le riserve tecniche che ho espresso e che valuteremo passo dopo passo - la decisione della Consulta. Le discriminazioni, implicite ed esplicite, nei confronti della donna sono purtroppo alla base di tanti problemi che affliggono oggi i rapporti di coppia e la vita delle famiglie. E nonostante decenni di femminismo più o meno radicale, più o meno condivisibile, questo divario non è stato ancora colmato. I numeri impressionanti dei cosiddetti femminicidi, così come la pratica dell’«utero in affitto», sono purtroppo la dimostrazione estrema e tragica di una certa concezione deviante della donna come oggetto, da assoggettare con ogni mezzo. Intervenendo recentemente a un Simposio organizzato dall’Ufficio famiglia della Cei su Amoris laetitia, monsignor Pierangelo Sequeri, preside dell’Istituto Giovanni Paolo II, ha affermato: «La differenza uomo donna è la differenza di tutte le differenze; se si viene a capo di questa, si possono governare tutte le altre. Se rimane non conciliata, o addirittura rimossa, fino a perdere la pratica e il senso dell’alleanza che deve interpretarla, le altre differenze rimarranno non conciliate». Oggi, nel matrimonio e nella famiglia questa differenza rimane in parte «non conciliata». Oppure, all’opposto, c’è chi vorrebbe dissolverla nell’indeterminatezza univoca della cosiddetta ideologia gender, cioè nella pretesa di annullare la differenza, appiattendo e uniformando l’identità maschile e quella femminile. Una strada che produce solo fraintendimenti e insoddisfazioni. Il cammino che la Chiesa indica, come lei sa bene, è quello di rinnovare l’elaborazione dei ruoli dell’uomo e della donna all’interno del matrimonio in rapporto alla differenza sessuale, su un piano di reciprocità feconda e di pari dignità. Aprire la strada alla possibilità – ripetiamo, possibilità non obbligo – di aggiungere il cognome della madre a quello del padre, ci sembra quindi un riconoscimento formale di questa realtà sostanziale. Spesso i gesti simbolici aprono la strada a processi di bene.
Luciano Moia