Gentile direttore,
le scrivo in merito agli articoli apparsi su “Avvenire” prima che prendesse spazio il caso del carcere di S. Maria Capua Vetere, che ha scosso tanti, quasi tutti. “Avvenire” è un giornale che sentiamo nostro e forse è l’unico – mi permetta – “da galera”. E quindi grazie! Sono cappellano in carcere da oltre trent’anni; prima lo sono stato in quello che era l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario e ora proseguo, con il mio confratello don Matteo, il ministero oltre che nelle sezioni dell’Articolazione della salute mentale (Asm) anche, di fatto, in altre due sezioni. Scrivo perché vorrei condividere con lei e con la ministra Marta Cartabia alcune considerazioni.
A) Vengo da una giornata nella quale ho visto i muri di una cella “affrescati” dal sangue di M. sgorgato dai tagli che si è fatto. Già le sezioni Asm sono complicate, ma quando avviene qualche episodio dovuto a un qualche scompenso, questi fratelli (perché per noi sono tali) vengono ulteriormente isolati in condizioni sub-umane.
B) Il problema non sono le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ndr) che conosciamo e di cui attestiamo la bontà, ma gentile ministra, le carceri. È il carcere che scompensa e genera o rende evidente, un disagio mentale che è latente in tantissimi. La ricerca sulla recidiva è cosa buona, ma a diversi ministri – penso a tutti quelli che sono passati in trent’anni – erano stati fatti presenti i dati positivi legati alle misure alternative. Va posto mano a dinamiche che sono proprie e interne agli istituti stessi. Tra l’altro basta poco per rendersi conto che l’uso e l’abuso (al bisogno?) di psicofarmaci, l’utilizzo di sostanze stupefacenti e che in alcuni casi scompensano, il ricorso sempre più frequente a psichiatri e psicologi sono sintomi di tutto questo. C’è l’impressione che il passo del ministro e del ministero (era così anche con il ministro Bonafede) sia diverso da quello dell’amministrazione penitenziaria.
C) L’altro aspetto è quello della formazione degli agenti di Polizia Penitenziaria. Le nostre sezioni si reggono su agenti che erano in servizio quando ancora c’erano gli Opg e sono quelli che, di fatto e con buon senso, reggono le situazioni particolarmente acute. E di grazia che ci sono! Qualcuno di loro è stato messo da parte, perdendo così esperienze preziose. Poi ci sono i giovani. E come chiedere loro di zappare un terreno senza dotarli di zappe. Non vengono dati strumenti idonei a fronteggiare chi soffre di disagio mentale. In questo anche le Asl non brillano come presa in carico dei più fragili e poveri.
D) Partendo da una citazione di Luigi Settembrini, sono convinto che non si può escludere da un cammino di giustizia riparativa nemmeno coloro che sono stati riconosciuti incapaci di intendere e di volere e per i quali permane una pericolosità sociale. Questi ultimi presentano infatti sensibilità non comuni, basta saperle cogliere. Se non si percorre questa strada, il carcere continuerà a rendere vittime coloro che hanno fatto... vittime.
E) Da ultimo mi rivolgo direttamente alla gentile ministra: la prego di trovare forme giuridiche per far partecipare ai vostri “tavoli istituzionali” anche i detenuti. Nel prossimo convegno nazionale dei cappellani è una cosa che ci prefiggiamo, ci aiuti in questo!
Da quando è chiuso l’Opg, a Messa “scendono” insieme – Covid permettendo – sia fratelli dell’Asm, sia fratelli della reclusione ordinaria. L’attenzione, la delicatezza, l’ascolto nei confronti dei primi da parte di questi ultimi non ha nulla da invidiare a certe pagine degli Atti degli Apostoli. Le risorse delle carceri sono i detenuti. Domenica scorsa ci si è dimenticati di dare da mangiare a un disabile grave, N. Così il “piantone” (meglio l’angelo custode ) – G. – ha rinunciato al suo giorno di riposo per supplire a questo “disguido”, noti che N. è povero, uno tra i più poveri.
Ecco, gentile direttore, queste sono le cose che grazie al suo “giornale da galera” volevo condividere con lei, con la stimata Marta Cartabia e, se ritiene, con tutti i lettori. Preghi per noi. Nel Signore
Don Daniele Simonazzi, co-cappellano del Carcere di Reggio Emilia
Caro e gentile don Daniele,
in questa prima domenica di luglio, mentre sulla scena pubblica del nostro Paese in diverso modo si dice e si progetta “giustizia”, ho deciso di dedicare alle sue «considerazioni» praticamente tutto questo spazio di dialogo. Spero, anzi so, che la ministra della Giustizia Marta Cartabia leggerà e rifletterà sulle sue parole e sulla sua esperienza, sul suo servizio a Dio e all’uomo, sulla sua pubblica testimonianza che dà corpo e voce ai corpi reclusi e alle voci impercettibili di coloro che hanno commesso errori o crimini e che si sono persi o sono stati perduti, ma sono e restano uomini e donne e non sono irrecuperabili “scarti” e anime definitivamente spezzate. E spero che anche molti altri e altre, eletti in Parlamento e con rilevanti responsabilità politiche, leggano e riflettano, e magari frenino parole e gesti senza misura e senza pietà. Penso che se lo faranno, troveranno tempo e modo per dare risposte serie alle questione serissime che lei pone con delicatezza e forza.
Voglio anche dirle, che sono onorato e grato per la sua definizione di “Avvenire” come «giornale da galera»… È vero, lo siamo. Lo siamo, perché entriamo ogni giorno con migliaia di copie nelle carceri, luogo destinato a coloro che hanno fatto persino in modo tremendo la cosa sbagliata. Lo siamo, perché pure tra quelle mura e dietro quelle sbarre, portiamo le nostre cronache che raccontano deliberatamente molto, moltissimo, delle persone che fanno (o tornano a fare) la cosa giusta per sé e per gli altri. Lo siamo, perché teniamo cara la volontà dei padri costituenti che ci hanno dato il mandato di costruire “prigioni” che siano strumenti di difesa della comunità e al tempo stesso di ricostruzione d’umanità. Lo siamo, perché non ci rassegniamo a una giustizia ingiusta o perfettamente algida. Lo siamo, perché, non sopportiamo violenze e prepotenze persino su chi è stato violento e prepotente e crediamo che fermezza e forza – come i suoi amici agenti dimostrano – non cancellano ascolto, comprensione e misericordia. Sì, gentile don Daniele, siamo “giornale da galera” perché proviamo a ricordarci (e a ricordare a tutti) che le carceri sono un pezzo della nostra società e nessuno dovrebbe considerarle (e farle considerare) un non-luogo dove confinare non-persone. Anche e soprattutto se i reclusi sono esseri umani straziati dal disagio psichico.
Grazie, dunque. Che Dio la benedica per la sua vita di prete e per il suo coraggio di cittadino. E che Dio ci aiuti a vedere, come ci è stato insegnato, anche nei carcerati il volto del Figlio. È forse il più difficile sguardo che ci è chiesto. E lei, don Daniele, ce lo consegna: senza, non c’è carità vera e non c’è vera giustizia.