Mettiamoci una croce sopra. Oppure no? Periodicamente ritorna, questo dilemma: se sulla cima dei monti debba continuare ad essere posato il simbolo cristiano per eccellenza, o se viceversa – in epoca di conclamata laicità sociale – le vette è meglio che restino vergini di ogni segnale, tanto più se religioso, così come natura le volle in origine.
Stavolta lo spunto è nato da un convegno e dalla presa di posizione di Marco Albino Ferrari, direttore editoriale del Club Alpino Italiano nonché egregio scrittore-alpinista, dubitoso quanto alla posa di nuovi simboli religiosi; contro di lui si sono immediatamente sollevati perentori altolà politici a non azzardarsi a toccare le croci di vetta; tanto da costringere il presidente del suddetto Cai a prendere le distanze e a porgere le scuse.
Disturbano così tanto, dunque, le croci poste sul culmine delle nostre montagne? Chiunque abbia scarpinato all’insù, per piacere o per impresa, di solito ha anzi avvistato con piacere quei manufatti a traliccio, talvolta incrostati dai ghiacci o tal altra luccicanti di sole, che annunciano in anticipo l’agognata meta innalzando di qualche po’ (e non solo altimetricamente) lo sguardo oltre l’estremo punto sommitale. Una foto abbracciati a quella croce, sorridenti, lo zaino finalmente posato a terra, rimane sovente a ricordo di giornate felici da raccontare.
Ma è pur scandalo, la croce: da sempre; né possiamo ignorarlo. Fin da quei secoli primissimi in cui i credenti si vergognavano – letteralmente – di rappresentare il loro Messia appeso a tale infame patibolo. I suoi bracci, che per alcuni congiungono cielo e terra e abbracciano il mondo, per altri suonano invece rigidi distanziali, segni di divisione, tagli verticali, fratture dolorose. Ed è bene – è il mio azzardo – che così rimangano variamente interpretati: davvero ci interessa, come cristiani, che dal culmine delle montagne (ma pure sulle pareti delle umane dimore…) domini un simbolo che deve restare lì perché «così è sempre stato», perché «tanto non dà fastidio a nessuno»? Meglio un simbolo contestato, che uno insipido.
La croce eretta a difesa di una cultura, di un’identità etnica addirittura, è alla fine una croce piegata, monca della sua necessaria dimensione universale. Innalzata su crinali che spesso segnano una frontiera, poi, può essere facilmente intesa quale cippo divisorio di confine. Del resto, riconosciamolo, per secoli venne piazzata lassù con intento di esplicito, esclusivo possesso o conquista e non di sola benedizione sopra alture e picchi vertiginosi, tramutati per l’occasione in giganteschi fermacarte sulla mappa geografica.
Diamo pure a queste trascorse interpretazioni l’attenuante del contesto storico, com’è opportuno; subito dopo però prendiamo atto della mutata temperie. Ha torto chi difende una visione della natura come santuario di per sé sacro, non soltanto privo di segni religiosi caratterizzanti, ma addirittura lasciando qualche impervia pendice (è proposta alpinistica recente) totalmente e volutamente inviolata dai passi dell’uomo? Si possono condannare quanti - a fronte della ideologia di contrapposizione che pretende di usare le croci quali picchetti per puntellare «i nostri principi», «i nostri valori» - rivoltano la medesima moneta reclamando un pluralismo religioso impossibile, con risultati che popolerebbero le vette di segnali contrapposti?
Il sentiero imboccato è dunque sdrucciolevole ed esposto. Da un lato si profila il rischio di negare colpevolmente il cammino percorso, ovvero l’inevitabile consapevolezza del proprio passato cristiano; dall’altro sta la protervia di chi vuole imporre la propria via come l’unica possibile. In realtà proprio la montagna insegna che sono ambedue passi falsi, tutt’altro che obbligati.
Assolutamente in linea con le tendenze dell’alpinismo, dove ormai il fascino delle imprese compiute in leggerezza prevale sull’epopea della conquista, la croce di vetta per essere vera deve restare umile: mai imposta. Solo così, approssimandosi alla cima, ogni diversamente credente potrà accettare quel segno almeno con la comprensione riservata a un marcapagina collocato in alta evidenza dalla storia (sapendo che ogni monumento è sempre discutibile e discusso) e magari persino con il consapevole rispetto dovuto alla fede di chi lo pose, popolo o singolo che sia.